BERLINO – Quale limite può esistere in un rapporto tra simbionti? Per sua natura, nessuno. È la sua stessa essenza a non prevedere confini: dove finisce una parte, inizia l’altra. Accade anche in amore, soprattutto in amore. Così è anche la coppia protagonista di Love Lies Bleeding, thriller ambientato negli anni ‘80 diretto da Rose Glass e presentato alla Berlinale dopo l’anteprima al Sundance Film Festival. Lou e Jacky sono infatti la stessa cosa. Incontro perfetto quanto vorticoso di pezzi combacianti, un esempio d’amore che passa sopra tutto. Una storia già vista – in Gone Girl di David Fincher Amy Dunne dice al compagno “Ho ucciso per te, chi altri può dirlo?” – ma ribaltato in chiave queer e votato a uno stile che pone attenzione ai corpi di queste amanti e al sudore che li attraversa mentre sfidano il mondo intero spingendosi all’eccesso. Il film è perciò esplosivo e rispetto al debutto della Glass, Saint Maud, un horror a basso budget che nel 2020 fece parlare di sé, è un turbine incontrollato di emozioni, dimostrazione di forza della sua giovane regista. Rose Glass entra così nel panorama delle voci indie americane, da seguire ed ascoltare per comprendere in che modo il cinema riesca ancora a rielabora il presente.
Love lies bleeding ha però anche un’anima vintage, spinta soprattutto dall’ambientazione di fine anni ’80. Anche così il film della Glass si confronta con il cinema classico americano, quasi a proporne una linea temporale alternativa. Lou (Kristen Stewart) incontra Jackie (Katie O’Brian) nella palestra di proprietà del padre interpretato da Ed Harris. Scatta subito qualcosa. Jackie è una bodybuilder, e a falcate decise affonda nello spazio con risolutezza. Il focoso rapporto d’amore, iniziato da un acceso incontro sessuale, prende subito il centro dello schermo, mettendo in chiaro che questa è la loro storia. Jackie chiede se può restare con Lou finché non avrà abbastanza soldi per passare a una gara di bodybuilding a Las Vegas. L’aspirante campionessa scopre però che la famiglia di Lou è in frantumi. Il fratello, interpretato da Dave Franco è un uomo temuto in città. Un muro oltre cui la coppia saprà farsi strada.
“Lou ha un aspetto estremamente feroce”, ha dichiarato Kristen Stewart, “costruito dall’educazione criminale ricevuta dal padre, che in fondo credo ammiri per la sua capacità di tenere tutto sotto controllo. Lou vuole davvero essere una brava persona. Fa sempre qualcosa per sistemare i casini degli altri. Tuttavia, sa anche di cosa è capace e quando il gioco si fa duro, proteggerà ciò che ama. Jackie è piena di vita, aperta, reattiva e vitale. Lou è ovviamente affascinata dalla sua fisicità, ma ancora di più dalla sua energia. È così sporgente, mentre tutto ciò che riguarda Lou è concavo. Sono semplicemente in grande sintonia, Lou ha sempre cercato di diventare invisibile, che nessuno avrebbe notato, mentre Jackie è un unicorno scintillante e inarrestabile”.
Si parla di chimica, quella degli steroidi e del sentimento. Un amore che brucia, non si consuma, e come il corpo di Jackie si gonfia sino all’estremo nel rapporto con Lou, sporco, sudato, ma sempre controllato nella regia ben composta di Glass. Le interpretazioni di Stewart e O’Brian restituiscono il meglio dell’idea di Love lies bleeding, grazie alle quali riusciamo a credere che questo rapporto tempestoso le spinga davvero sino all’omicidio incondizionato di chiunque si frapponga tra loro e la libertà. Il film rappresenta perciò anche una parabola alternativa, ma non frapposta, al sogno americano, che in un gioco di generi assume anche la forma dell’incubo omicida pur di realizzarsi.
Kristen Stewart è da anni molto attiva sui temi della comunità LGBTQ+, per la quale spera in un cinema capace di cogliere le complessità degli individui. Un obiettivo ancora lontano in un’industria che sembra aver colto le opportunità di un nuovo pubblico senza però restituire in forma d’arte queste vite tenute per troppo tempo lontane dagli schermi. “Darci le pacche sulla spalla a vicenda e ottenere punti per aver dato spazio al voci emarginate, solo nella misura in cui debbano parlare esclusivamente di loro stesse. Penso che l’epoca dei film queer e basta sia finita. Ci deve essere una struttura narrativa ben più profonda che limitata solo alla sessualità dei protagonisti. L’ho fatto una volta, ma ora mi piace molto l’idea di portare alla luce prospettive emarginate e di non far leva sulle ragioni per cui sono emarginate, ma sulla loro reale esperienza. Cosa amano, quali sono i loro desideri, da dove vengono e dove vogliono andare. Senza sentirsi sempre in dovere di salire su un cazzo di palco e diventare la portavoce di tutti”.
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