‘Lovano Supreme’: Franco Maresco racconta Joe Lovano, dalla Sicilia dei nonni a Coltrane

Un doc sulla biografia del musicista jazz di fama mondiale, sulle connessioni artistiche, sociali e musicali tra la terra natale e il genere musicale: nel film FC anche immagini dell’Archivio Luce


LOCARNO – Da Alcara Li Fusi e Cesarò a Cleveland e ritorno, passando per Locarno76, Fuori Concorso: Joe Lovano, musicista jazz contemporaneo di fama mondiale, natali statunitensi ma radici siciliane – infatti, delle località in provincia di Messina erano originarie le famiglie paterna e materna – suonando John Coltrane è tornato nella sua terra madre con un concerto al Teatro di Verdura di Palermo (agosto 2017) e Franco Maresco lì ha dato forma al racconto cinematografico, un documentario in cui lo spaccato biografico e le origini del jazz sono canali comunicanti.

È una leggenda vivente Lovano, che Maresco ha reso “Supreme” come titola il film, Lovano Supreme: tra l’umano e il mitico, il racconto su grande schermo è anche l’espressione di una passione personale dell’autore siciliano, che ritorna al jazz (dopo Io sono Tony Scott, ovvero come l’Italia fece fuori il più grande clarinettista del jazz, 2010) connettendolo alla sua Sicilia, prima che all’Italia tutta.

Joe Lovano – cappello Panama color vinaccia, occhiali da aviatore dalle lenti trasparenti e nel colore rosato in pendant con il copricapo – ha un volto che è già un racconto, se poi ci si lascia portare dallo stupore che sin dai primi istanti gli si legge nello sguardo al suo approdo in Sicilia la “melodia” vien da sé e Maresco questo l’ha reso immagine e emozione, scegliendo di aprire il film – senza premesse, senza repertorio – cominciando con lui, con Lovano con i piedi piantati sulla sua terra natale, pronto a fare un viaggio temporale e musicale, di vita e di note. Maresco in fondo usa subito la musica, sì quella della voce: “magnifico … madonna mia” esclama Joe Lovano all’ingresso e entrando dentro l’abbraccio del teatro, vuoto in quel momento, tutto a sua disposizione; la scelta di quella musicalità tutta personale, di parole esclamate in un italiano dal fortissimo accento americano, sono l’intuizione per catturare lo spettatore e portarlo dentro l’uomo, prima che dentro al musicista. L’empatia e la simpatia fanno da calamita, e la voce, timbro di personalità, da collante.

Non appena Lovano comincia a raccontare – voce fuori campo sulle immagini che, sotto un sole accecante e cocente (si percepisce addosso), lo mostrano estrarre il suo strumento a fiato dalla custodia – parla di “sogno”, sommando così un ulteriore livello emotivo, e quello di cui narra non è naturalmente l’onirico come attività della mente, ma qualcosa che per lui, lì nella sua terra, si sta esaudendo, in maniera incredibile, attesa si percepisce, ma non creduta finché non davvero reale. Ed è a questo punto che Joe Lovano fa un dono alla camera, allo spettatore, e comincia a suonare un assolo di sassofono, passeggiando tra le sedute vuote del Teatro, riempiendo tutto quel buco umano con la musica e con una fisicità e una mimica necessaria alla vitalità dello strumento che ne restituiscono il suo essere gigante in quell’arte.

Per far toccare la spiritualità del Jazz, Lovano – e con lui Maresco – continua la sua esplorazione della terra siciliana, sinonimo di terra di jazz, andando alla ricerca di strumenti veramente antichi, che tocca, quasi accarezza, di cui le inquadrature ravvicinate restituiscono la materia di cui sono fatti, così come a conferirgli veramente quell’anima propria del genere: “…questo spirito è qui ed è qui che è stato nel passato”, commenta infatti il musicista. E lo spirito cui fa riferimento, “il melting pot della Sicilia nel mio DNA è ciò su cui si fonda la musica”.

S’alternano poi sequenze d’archivio in bianco e nero – tra cui alcune dell’Archivio Luce -, come l’approdo dei nonni di tutti noi in America: su queste immagini in particolare, dell’arrivo in nave a New York, Maresco fa solo suonare le note malinconiche del sax; l’entusiasmo speranzoso dei compatrioti era nel brillare degli sguardi, emozione che – seppur la grana sia consunta – si vede, o per lo meno si riesce a immaginare.

Lui, Lovano, seconda generazione di siculo-americani, ricorda il nonno sceso a dorso di cavallo dalle montagne messinesi, senza mai più guardarsi indietro, un eroismo umano dettato dalla fame e dall’orgoglio: “una volta che scese giù, era per sempre!”. Questo racconto personale si intesse con quello del senso del jazz, delle “sfide e dell’energia espressiva che ci vuole”, soprattutto con riferimento alle composizioni di Coltrane, sequenze narrative e visive parallele a quelle presenti delle sessioni di prova a Palermo, adesso in interni, con gli altri musicisti.

“Non ho mai conosciuto i miei nonni”, confessa sul finale Joe Lovano, lì al cimitero siculo che visita un po’ come un tempio sacro: è poco prima di questa sequenza ultima che entra in campo la voce di Franco Maresco stesso, anche narratore, che così accompagna – con la voce appunto, così come tutto comincia in questo doc – l’atto conclusivo. Come si confà al suo piglio, nell’appaiare nell’arte e nella società siciliani e neri, e la comune terra americana, Maresco precisa senza giri di parole che l’America “democratica e libertaria lo era solo nelle pagine della Costituzione”, ricordando come i due popoli abbiano condiviso anche, e soprattutto, le discriminazioni razziali e l’emarginazione. Lovano – nelle parole di Franco Maresco – è “l’ultimo vero erede delle tradizioni di questo popolo, fortemente consapevole che essa è anche storia del suo popolo, e quindi della sua identità di musicista e di uomo. Un uomo che in questa terra di Sicilia, terra di dolore ma anche di continua rinascita, ha finalmente ritrovato quello che ci piace definire il suo ‘A Love Supreme’”.

di Nicole Bianchi

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