Jasmine Trinca: “La mia sfida ai tabù sul materno”

'Maria Montessori – La nouvelle femme', dal 26 settembre in sala, con Jasmine Trinca nel ruolo della celebre pedagogista: "I bambini neuro-atipici mi hanno trasmesso una grande passione"


PESAROJasmine Trinca è Maria Montessori nel film di Lea Todorov coprodotto da Carlo Cresto-Dina, in anteprima italiana alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro e nelle sale con Wanted dal 26 settembre. Maria Montessori – La nouvelle femme racconta la figura della pedagogista e medico (1870-1952) da un inedito punto di vista, quello del rapporto con una maternità impossibile da vivere per una donna single all’inizio del Novecento e dell’incontro con un’altra donna, un personaggio immaginario, Lili d’Alengy (Leïla Bekhti), cocotte parigina che rifiuta la figlia disabile (la piccola e bravissima Rafaelle Sonneville-Caby) e prova vergogna per lei. Entrambe le donne adulte saranno trasformate da questa esperienza che consentirà alla pedagogista di mettere a punto un metodo educativo ormai celebre in tutto il mondo, basato sulla stimolazione delle emozioni e delle capacità cognitive dei bimbi. Ma anche la piccola troverà la sua dimensione e la sua forza.

Lea Todorov – figlia del più grande storico della letteratura russa, Tzvetan Todorov – ha costruito lo script anche a partire da un’intensa esperienza personale in un film che contiene tanti pezzi diversi e importanti, tra cui la lotta di una scienziata per ottenere il giusto riconoscimento in una società al maschile, la difficoltà di conciliare i ruoli, la complessità dell’essere madre.

Jasmine, Maria Montessori era stata già raccontata, ad esempio nella miniserie televisiva con Paola Cortellesi. In questo caso c’è però un approccio diverso, decisamente femminista.

E’ un tentativo meno agiografico di raccontare la Montessori classica che, a livello globale e non solo in Italia, è una specie di star, conosciutissima per il metodo educativo. Il film si concentra sul primo periodo della sua attività, quando lavorava con i bambini neuro-atipici, che all’epoca venivano definiti “deficienti” o “idioti”, con parole che sono diventate poi offensive. Maria comincia a prendersi cura di bambini con handicap motori, psicologici e di altro tipo e sviluppa il metodo per cui è universalmente conosciuta.

Il film insiste molto anche sulla sua vita privata, il rifiuto del matrimonio per non diventare “proprietà di un uomo” in un’epoca in cui l’unico orizzonte per una donna era quello di moglie, il figlio da cui dovrà separarsi per molti anni.

Si racconta una parte della sua vita privata, la rinuncia dolorosa alla maternità per proseguire la carriera scientifica. Maria è stata femminista per l’affermazione di sé, il suo amore per la scienza è stato più forte di altri aspetti della sua vita. Ritroverà poi suo figlio Mario che farà parte del suo entourage scientifico. Maria nel film si specchia in Lili, una donna della Francia di inizio Novecento che vive una vita libera. E’ un film di esclusi a cui si dà una possibilità perché anche Maria era un’esclusa, non era riconosciuta come accademica, non poteva firmare le sue scoperte e non era neanche pagata.

Come ti sei preparata al ruolo? Cosa hai scoperto di Maria Montessori?

Con Lea Todorov stiamo parlando di questo progetto da tanti anni, da quando faceva la residenza a Villa Medici a Roma. Lei è dentro la materia anche per motivi personali. Di Maria Montessori avevo un ricordo meno complesso e stratificato, sicuramente qui ho colto la sua infinita forza e caparbietà, il suo dolore e il suo mettersi in discussione. Il film racconta anche grandi momenti di incertezza. È molto femminile il mettersi in questione continuamente anche quando il talento è evidente. Culturalmente noi donne ci mettiamo in discussione perché dobbiamo andarci a prendere quello spazio che gli uomini sono abituati invece ad abitare. Giuseppe Montesano, il collega e amore di Maria Montessori, dà per scontato il riconoscimento che invece lei si deve prendere faticosamente. D’altronde la soubrette francese, un personaggio inventato, la incoraggia a prendere coscienza e legittimarsi, le dice anche che il potere e la libertà passano attraverso i mezzi economici. Non vorremmo che fosse così, ma trovare delle filantrope che la finanziano è stato decisivo per Maria Montessori.

Permettimi di toccare un tema delicato, il rapporto di Lea Todorov con sua figlia, diversamente abile.

Il film è dedicato a lei. Lea, che aveva già fatto un documentario sull’istruzione, ha raccontato anche il rapporto con sua figlia. La sua bambina era presente sul set e c’è anche in un piccolo ruolo. Una figlia che ha avuto tanto bisogno di essere seguita non le ha fatto perdere la speranza di compiere un’evoluzione. In Francia ho incontrato delle educatrici, in particolare una terapeuta che lavora con il corpo dei bambini. Ho visto come il lavoro sui bambini possa portare dei cambiamenti anche in casi drammatici. Ho enorme stima di Lea perché si mette in discussione rispetto al suo ruolo di madre. E’ anche bello far vedere ai propri figli il proprio desiderio e l’immaginario, un orizzonte diverso per le donne che non è solamente quello della cura e basta.

E’ stato importante anche lavorare con quei bambini sul set.

Sì, e in particolare con Rafaelle, è stato una grande parte del lavoro e della passione per questo film. All’inizio è stato difficile, emotivamente, gestire l’incontro con questi meravigliosi fanciulli, poi, piano piano, la Montessori si è incarnata. Le riprese sono state anche imprevedibili su alcune cose, come accade nel cinema anche in situazioni molto meno nobili. Mi ha riportato allo stato di quando ho cominciato, alle origini, l’ascolto, l’avere una relazione sul serio con chi si ha davanti. Mentre tra attori può entrare in campo un meccanismo, il sapere già quello che si sta facendo. Ho riscoperto un certo piacere. E’ stato impegnativo ma anche emozionante ed eccitante. E sono ancora legata a tutti i bambini con cui ho lavorato, sono andata tre o quattro volte a sorpresa a Parigi quando loro si riuniscono.

Un altro tema che ti sta da sempre molto a cuore è quello delle madri raccontate fuori dagli stereotipi, nella loro contraddittorietà.

Sì, le madri possono non essere perfette e hanno un orizzonte di libertà. Lili all’inizio rifiuta sua figlia ma ci racconta qualcosa di molto sincero, tutti noi possiamo fare un percorso con le nostre emozioni. E’ un tema che conosco e che mi appassiona, da Marcel! a Fortunata. Penso che sia importante provare a proporre delle visioni alternative rispetto a quello a cui si crede di dover appartenere. Tutto è possibile e va compreso e trasmesso come un immaginario differente. Questa è anche la potenza del cinema. Se quella cosa ti emoziona puoi sciogliere un tabù. E’ un esercizio per tutti noi, in un paese che culturalmente ha assegnato per convenienza e per convenzione dei ruoli fissi. Ma c’è ancora tanto da fare.

A proposito di tabù. Abbiamo appena visto la bellissima serie di Valeria Golino, L’arte della gioia che parla proprio della rottura dei tabù.

È un racconto inedito di come una giovane donna, Modesta, possa essere una sopravvissuta che ha fame, voglia di riscatto, in maniera anche feroce. Madre Leonora, il mio personaggio, è uno specchio deformato di Modesta, viene da un’altra vita ed è stata confinata in convento per aver avuto una figlia fuori dal matrimonio. L’aspirazione e il desiderio sono stati rinchiusi in questa regola. Ha spinte potenti e contraddittorie. Seduce Modesta in modo ambiguo fin dall’infanzia ma proietta su di lei anche la sua maternità. Ha un desiderio ma è costretta a celarlo. Valeria Golino è davvero tanto brava a raccontare le mille vie di queste emozioni. Ne L’arte della gioia c’è un cortocircuito, dallo sguardo di Goliarda Sapienza allo sguardo di Valeria Golino con passaggi potenti di visione sull’emancipazione del femminile.

L’arte della gioia è un film che parla potentemente al nostro presente pur essendo una storia di inizio Novecento.

Nella varietà c’è un infinito arricchimento per tutti. Credo che lo spettatore maschio medio, inizialmente spiazzato dal film di Valeria perché non si ritrova rappresentato come d’abitudine, cioè al centro del racconto, dopo lo choc iniziale, possa entrare in questo sguardo immersivo e ammaliante.

Cosa pensi del rapporto tra sala e piattaforme? In questo caso c’è una serie che è approdata anche al cinema dopo il Festival di Cannes.

Non tutti i progetti ideati per le piattaforme o la televisione sono compatibili con il cinema. Ma alcuni lavori, anche per la natura dei loro realizzatori, vengono concepiti come opere cinematografiche. Certo, la serialità ha un altro passo di racconto. Ma al di là dei risultati, alcune opere vanno viste in sala dove trovano un altro valore. Accompagnando L’arte della gioia alle anteprime, mi sono resa conto del piacere che gli spettatori provano, un piacere che perderebbero in una visione televisiva. Quando giravamo la serie, avevo già la sensazione che Valeria stesse girando un film per il grande schermo.

Dopo Marcel! tornerai alla regia?

Mi piacerebbe. Devo ritrovare la fiducia e l’idea di credere che lo posso fare. Ho avuto un grande piacere a fare la regista, poi dopo l’uscita del film c’è stato una sorta di contraccolpo. Anche da attrice in questo momento si girano pochissime cose, speriamo che cambi.

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