I fotogrammi di Renato Berta

Cos’hanno in comune Jean-Luc Godard, Jacques Rivette, Louis Malle, Mario Martone, Éric Rohmer, Claude Chabrol, Alain Resnais, André Téchiné, Amos Gitaï, Philippe Garrel, Manoel de Oliveira? Il dop


Renato Berta pubblica Photogrammes (Grasset, Parigi), un libro di memorie scritto con l’amico Jean-Marie Charuau, regista e sceneggiatore.

Cos’hanno in comune Jean-Luc Godard, Jacques Rivette, Louis Malle, Mario Martone, Éric Rohmer, Claude Chabrol, Alain Resnais, André Téchiné, Amos Gitaï, Philippe Garrel, Manoel de Oliveira? Il loro direttore della fotografia. 

Sconosciuto al pubblico ma leggendario nella Settima Arte, Renato Berta ha girato circa 120 film con i registi più importanti della sua generazione. Ci regala un’autobiografia che vibra d’un amore per il cinema costantemente riacceso. 

Tutto ha inizio a Bellinzona, in Svizzera. Il giovane Renato, stanco di un padre ipnotizzato dalla televisione, fonda al liceo un cineforum e proietta film della Nouvelle Vague francese e del neorealismo italiano. Questa fame di cinema lo porta a studiare al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma ove si diploma nel 1966. Conosce Rossellini, Visconti, Antonioni e soprattutto Pasolini, che lo affascina per le sue mille contraddizioni. Gira un corto con l’amico Maurizio Ponzi. Lavora con alcuni registi svizzeri prima di andare a girare film un po’ ovunque nel mondo. In Algeria nel 1969, a Bangkok nel 1971, dove vede i B52 americani che decollano per bombardare il Vietnam, negli Stati Uniti, e naturalmente in Francia, ove si svolge gran parte della sua avventurosa odissea.

Dalle proiezioni di Godard alle conversazioni con Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir, passando per i Black Panthers, Robert Doisneau, Ingrid Caven, Patrice Chéreau, Susan Sontag, Isabelle Huppert, Marcello Mastroianni. Le sue memorie traboccano di aneddoti, ritratti, backstage e offrono profonde meditazioni sui rapporti tra cinema e realtà, l’uso delle tecnologie, i legami tra etica ed estetica. In Italia Berta ha lavorato più volte con Jean-Marie Straub e Danièle Huillet. 

Imperdibile il capitolo dedicato a Noi credevamo e Il giovane favoloso, ambedue per la regia di Mario Martone e prodotti dalla Palomar di Carlo Degli Esposti. Chi scrive ha avuto la fortuna di osservare giorno per giorno con quale pazienza certosina Renato Berta illuminava le umide carceri risorgimentali, lo sbarco dei garibaldini, gli antichi caffé torinesi, l’immensa biblioteca della famiglia Leopardi, l’ermo colle di Recanati, le statue marmoree di Palazzo Pitti, le pendici del Vesuvio. Noi credevamo è stato il primo big budget italiano girato interamente con macchine da presa digitali. Sul set Berta e Martone sperimentavano continuamente effetti di luce cangiante, l’utilizzo del monitor per rivedere all’istante le scene assieme agli attori, gli ‘effetti notte’, le transizioni dai tramonti solari ai candelabri accesi.  “Mario Martone è formidabile perché lascia sempre spazio al dubbio. S’interroga molto ma una volta che ha fatto una scelta non torna mai indietro. Sa veramente farti partecipare ai rischi. Non l’ho mai visto cambiare idea sul set, contrariamente a tanti altri registi […] Lavorare con Mario vuol dire rischiare di vivere dei momenti esaltanti. Lui osa veramente e non ha paura d’affrontare soggetti complessi onde torcergli meglio il collo. Così nasce il suo cinema. Mario è un creatore e credo di poter affermare che è anche un amico”.

31 Gennaio 2022

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