Gianikian e Ricci Lucchi: “Ogni epoca ha il suo fascismo”

Si chiude con un grido d'allarme Pays barbare, il film di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi presentato al TFF, che sarà distribuito da Feltrinelli Real Cinema


TORINO – “Ogni epoca ha il suo fascismo. Insolente, atrocemente farsesco, il fascismo si ripresenta. Noi proviamo un sentimento di inquietudine. Siamo immersi in una notte profonda. Non sappiamo dove stiamo andando. E voi?”. Con queste parole, un grido d’allarme, si chiude Pays barbare, il film di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi presentato al TFF, dopo l’anteprima al festival di Locarno. Nuovo lavoro della coppia di artisti amata in tutto il mondo (loro opere alla Cinémathèque Française, alla Filmoteca Española, alla Cinemateca Portuguesa, al Pacific Film Archive di Berkeley e in musei come il MoMA di New York e la Tate Modern di Londra). Videoarte che privilegia l’impegno, la protesta: stavolta, con la loro famosa “camera analitica”, sono andati a esplorare un territorio ancor più proibito, quello del colonialismo italiano, passato nella vulgata come innocuo. “Siamo tornati a frugare negli archivi cinematografici per cercare fotogrammi dell’Etiopia/Abissinia del periodo coloniale italiano. Abbiamo trovato diversi film privati di un medico, immagini di Mussolini, una crociera verso l’Africa, attraverso quel Mediterraneo che oggi è tomba di migranti, vedute aeree del territorio, bombardieri carichi di bombe all’iprite, il cui utilizzo, contro la Convenzione di Ginevra, è sempre stato sempre negato, fotogrammi militari che mostrano gli uomini e le armi della violenta impresa per la conquista dell’Etiopia (1935-36)”. “Per questo Paese primitivo e barbaro l’ora della civiltà è ormai scoccata”, dice Mussolini in uno dei suoi discorsi, ma i barbari, è evidente, siamo noi.

Il film si apre con i fotogrammi del corpo di Mussolini e della Petacci a Piazzale Loreto nel 1945, insistendo sui volti della folla, ripresa al ralenti per enfatizzarne le espressioni.
Ci siamo ispirati alle parole di Italo Calvino: “Dopo essere stato all’origine di tanti massacri senza immagini, le sue ultime immagini sono quelle del suo massacro”. Calvino diceva anche che ogni dittatore avrebbe dovuto tenere queste immagini sul suo comodino. Nella drammatica pagina finale del fascismo, protagonista è la massa che ondeggia, spinge, calpesta, urla, grida, alza le braccia gesticolando per farsi notare, come per liberarsi dalla paura della guerra e della dittatura… Ma non era la stessa massa che osannava e acclamava? La folla di Piazzale Loreto esprime vari sentimenti: la gioia per la fine della guerra e la caduta della dittatura, ma anche la paura per l’inizio di una guerra civile che sarà sanguinosa.

Dove avete trovato queste immagini inedite?
A Lucca all’inizio degli anni ’80. Sono immagini che provengono dal negativo originale in 16mm e sono state girate il 29 aprile del ’45, gli Alleati non le hanno sequestrate forse perché in piccolo formato o perché erano nascoste. Sono circa 80 metri girati nell’arco temporale della giornata. Non vi sono giunte, solo i cambi scena di un film montato in macchina rimasto intatto, trovato ancora avvolto in una carta velina ingiallita. Ma ci abbiamo messo un quarto di secolo per affrontarle.

Perché, per parlare del fascismo, avete scelto la visuale del colonialismo?
Abbiamo voluto circoscrivere al colonialismo italiano, sempre messo in ombra. Allora a tutti piaceva avere un impero, anche alla sinistra, così ci è stata tramandata l’immagine di colonialismo buono, invece è stato crudele come gli altri. Inoltre l’Italia non è grande potenza e questa conquista avrà un enorme costo in esseri umani e risorse economiche che dissangueranno il paese, già prima della Guerra di Spagna e della Seconda Guerra Mondiale e fino alla guerra civile.

Nel film vediamo immagini delle conquiste imperiali in una atmosfera solare.

Siamo nel 1926 in Libia, l’anno napoleonico del duce festeggiato con dispendiosi eventi propagandistici. Mussolini viene ritratto di fronte, di profilo, con il naso ancora segnato dal colpo di pistola di un attentato che aveva subito a Roma. In Libia vengono commesse atrocità spaventose ma non viene mai completamente sottomessa, rigurgita dei cosiddetti “ribelli”, fra tutti Al Mukhtar giustiziato l’11 settembre del ‘31.

Poi si vede la crociera sul Mediterraneo, con quel ballo davvero inquietante.

Sono immagini amatoriali dove si vedono questi europei in crociera verso l’impero coloniale: sono industriali e burocrati, ma anche missionari e medici. In tanti accorrono per sfruttare al meglio l’occasione di nuove terre o per evangelizzare i popoli africani. Tra i passeggeri ci è sembrato di riconoscere anche Adolf Hitler.

Utilizzate per la prima volta la parola con molti testi, che vengono letti da voi o salmodiati da Giovanna Marini, tra questi le lettere di un soldato.
Usiamo la parola perché non vogliamo che ci siano fraintendimenti, vogliamo che il discorso sia chiaro. Abbiamo trovato una corrispondenza che risale agli anni ’20 tra un militare, cannoniere a Tobruk, in Libia, e la sua fidanzata, una giovane operaia in una fabbrica bellica. Giovani contadini, di modesta istruzione e condizione sociale, lasciano i campi incolti e sono costretti ad abbandonare la famiglia spesso in disastrose situazioni economiche. In queste lettere d’amore si parla dei gravi problemi economici della famiglia in patria e di ciò che devono subire i soldati al fronte, ferite, mutilazioni ma anche problemi psichici. E poi mettono in luce una condizione femminile  poco studiata.

È particolarmente atroce la descrizione dell’uso dei gas con la veduta aerea e le parole di Hailè Selassiè, l’imperatore dell’Etiopia.

Dall’aereo si possono individuare villaggi, movimenti dei guerrieri e sganciare bombe e spezzoni incendiari, le capanne di paglia diventano roghi, con fiamme spettacolari come in un film hollywoodiano, che vengono descritte in alcuni famosi diari, ma anche gli uomini bruciano. Dal cielo scendono armi chimiche, bombe all’iprite, che intossicano l’atmosfera, è impossibile trovare riparo. Questo dettaglio dell’impiego dei gas tossici sarà per anni negato e poi dimenticato…

Dedicate molto spazio al corpo delle donne africane, che diventano anche loro terra di conquista e sono ritratte in molte “foto ricordo”.
Le donne sottomesse, violentate, diventano “faccetta nera”, preda facile, per fame, dei militari. Tanto che vengono emessi divieti severi contro il meticciato.

Come mai il testo del film è in francese, nonostante voi siate due italiani che raccontano una storia italiana?
Dopo la trilogia della guerra, che ci ha portato a lavorare 12 anni con il Museo di Rovereto, volevamo fare un film sul fascismo. Ma dal 2005 le cose sono cambiate e abbiamo dovuto cercare finanziamenti in Francia. Dunque Pays Barbare è prodotto dai francesi con Les films d’ici e Arte e ci sembrava naturale usare la lingua francese. In Italia sarà distribuito da Feltrinelli.
 
Per la prima volta avete usato il digitale.
Nessuno fabbrica più pellicola, i laboratori hanno chiuso: in pratica ci siamo confrontati con la fine del cinema. Abbiamo montato tutto con Final Cut, e a parte la fatica di adattarci a questo sistema, l’immagine ha una resa diversa. Anche per questo in alcuni momenti abbiamo usato l’inversione dei negativi.

La domanda che ponete alla fine del film – riguardo al fascismo contemporaneo – ha trovato risposta?
No, non ho avuto ancora una risposta. Viaggiando all’estero ci rendiamo conto che in Italia viviamo in una farsa e ne abbiamo avuto l’ennesima prova in questi giorni con la vicenda della decadenza di Berlusconi. 

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