BARI – Matteo Garrone atterra al Bif&st “di ritorno dagli Oscar”, a una settimana esatta dalla Notte che ha visto trionfare La zona d’interesse di Jonathan Glazer, nella categoria Miglior Film Internazionale, in cui concorreva Io Capitano.
Nella masterclass che il regista ha tenuto al Teatro Petruzzelli, dove ha ricevuto “la più bella accoglienza di tutta la mia carriera”, dice dinnanzi alla standing ovation della platea gremita, ha parlato del suo film addentrandosi nella poesia e nel dramma della narrazione, nell’umanità dei suoi interpreti, ma anche nelle meccaniche della corsa per l’Oscar.
E Garrone non ha dubbi, vincere l’Oscar “era possibile, ma la campagna è come quelle elettorali; i film in corsa hanno bisogno di un distributore americano importante: noi abbiamo fatto del nostro meglio ma non avevamo chi ci dicesse cosa fare davvero, come per esempio che il film potesse concorrere in tutte le categorie, cosa che permette più visibilità, per arrivare a tutti i 10mila votanti dell’Academy e non solo ai 1000 del premio per il film internazionale. La cosa più difficile è far vedere il film, dopo conta il film in sé: se siamo riusciti a arrivare tra i cinque finalisti senza nessuno a supporto è perché il film era potente, e questo è anche un po’ il rammarico, perché significa che avessimo le carte in regola. È una gara da cui non tutti partono dalla stessa posizione; gli inglesi hanno oltre 900 persone votanti per l’Oscar, mentre gli italiani poco più di 100”.
Parole di cronaca, forse con un soffio di amarezza per lo sfuggire di quei “dettagli” fondamentali che avrebbero potuto fare la differenza, ma non una polemica quella di Garrone, che però parla chiaro, come quando racconta che “questo film, tra le tante disavventure vissute, è stato anche bocciato dal Fondo Europeo: Eurimages ha bocciato il film perché secondo loro era impensabile trattare in modo così avventuroso un film drammatico”.
Entrando e uscendo dal film, toccando la lavorazione, sfiorando la lirica, addentrandosi nell’essenza, Garrone, dopo tre mesi trascorsi in America, si restituisce con un umore in stato di grazia e spirito di gratitudine; per lui “quando hai un film come questo non ti puoi lamentare della stanchezza (del viaggio continuo per supportarlo), ti fa capire i privilegi che hai rispetto a chi dovrebbe avere gli stessi diritti”.
E, proprio a proposito del “periodo americano”, racconta di aver “fatto proiezioni mirate, ma anche in sala con pubblico pagante. L’America è un Paese di migranti alla ricerca di un futuro migliore, per cui si identificano, e in più è un racconto epico, cosa che appartiene al cinema americano, per cui era un film accessibile. Per certi versi è il mio film più popolare, Seydou non ha zone d’ombra, con lui non è difficile empatizzare. L’essere popolare del film si percepisce dal calore raccolto sin dall’uscita a settembre, poi anche Papa Francesco ha voluto supportarlo espressamente, da figlio di migranti; credo, questo, abbia aiutato il film a non scivolare dentro la strumentalizzazione politica”.
Io Capitano, che a ogni proiezione statunitense “aveva sempre una standing ovation” per Garrone deve la sua “forza alla forza interpretativa, alla purezza, intensità di Seydou e Moustapha, così il film arriva al cuore. Ho preferito non dare mai loro la sceneggiatura, così non sapevano se i personaggi ce l’avrebbero fatta: giravamo in ordine cronologico e giorno per giorno speravano di farcela, questo li aiutava a creare una sorta di matrimonio tra loro persone e i personaggi”.
È lucido Garrone e specifica che “il film non nasce con la speranza di cambiare: la politica conosce perfettamente quello che succede, io ho cercato di far vedere quello che accade prima che le barche arrivino. Siamo stati anche a Bruxelles, alla Commissione Europea, per una proiezione, che ha avuto una standing ovation, poi però due settimane dopo hanno fatto una legge persino peggiore della precedente”.
Durante la masterclass, all’intervento di Matteo Garrone, viene intercalata la lettura di un passaggio da Alì dagli occhi azzurri, scritto da Pasolini nel ’64, e il regista commenta che “noi siamo abituati a immaginare che si parta perché si scappi da guerre o cambiamenti climatici; ma a volte si parte perché si è giovani, o anche perché si è poveri ma si ha un sogno; e spesso, quando si è giovani, si pensa di essere anche invincibili, così partono i due ragazzi del film, e quando si rendono conto del sistema di morte in cui sono entrati è tardi. È un racconto che abbiamo cercato di mettere in scena come epico, ha una struttura classica, è come un’Odissea contemporanea”.
Il “romanzo di formazione”, così Garrone stesso definisce il suo Io Capitano, è un racconto fatto con gli occhi dei migranti, per cui “io sono stato costretto a lavorare in sottrazione perché sarebbe stato difficile mettere in scena cose terrificanti, tanto che rischiavamo quasi sembrassero false. Il film cerca di umanizzare numeri a cui ci siamo abituati, e dietro a questi numeri ci sono persone con il sogno di conoscere il mondo; racconta anche che, rispetto al passato, che conosciamo bene da Paese di migranti, c’è la globalizzazione dei social, per cui loro vedono immagini che sono promesse, quindi inseguono un sogno spesso illusorio, il che rende anche più umana la tragedia. Il film parte da premesse legate ai diritti umani fondamentali, come il potersi spostare. Io sono stato un intermediario delle loro storie, volevo si rispecchiasse il dramma, essendo vero e sincero”.
E si commuovente compostamente Garrone quando racconta come Saydou abbia affrontato la scena finale, la potenza del primo piano, di cui “aveva paura perché non aveva mai fatto l’attore, per cui ha vissuto tutto il film anche con una grande ansia: lui stesso ha detto che in quel finale era riuscito a farcela, era davvero il Capitano, e quindi è riuscito a interpretarlo così, un dono che capita raramente nella carriera di un regista”.
Garrone, entrando nel merito delle proiezioni nel mondo, si sofferma su due punti “della cartina geografica”, il nostro Paese e l’Africa. “C’è stata una cosa estremamente positiva in Italia: la straordinaria accoglienza nelle scuole, grazie a una serie di professori illuminati, che hanno mostrato il film a migliaia di studenti, che sono il nostro futuro; si sono trovati davanti alla storia di loro coetanei, ragazzi come loro, con famiglie e sogni: è stato d’aiuto a far mettere una luce su questo dramma della nostra epoca. È un pubblico che non sarebbe mai andato da solo a vedere questo film, ma grazie a certi insegnanti sì”. Il film è uscito anche in 20 Paesi dell’Africa e “in aprile ci sarà l’ultimo capitolo in Senegal, un tour che partirà da Dakar e poi – con un caravan – porteremo il film nei villaggi. Mi hanno mandato un video di una proiezione a Dakar, con studenti di periferia mai stati al cinema: sulla scena della donna che comincia a volare, ridevano come pazzi, perché per loro era qualcosa di magico e la magia ti dà allegria. Per me, sono momenti visionari per raccontare il protagonista più in profondità”.
Matteo Garrone al Bif&st riceve un doppio riconoscimento, il Federico Fellini Platinum Award for Cinematic Excellence e il premio intitolato a Mario Monicelli per il Miglior Regista: “questo film ha un debito con i grandi capolavori del Neorealismo, ma anche un genio come Fellini mi hanno influenzato nella visione più onirica. Monicelli è uno dei registi che ho amato di più con Rossellini o De Sica: con altri che fanno il mio mestiere facciamo il meglio per costruire un ponte con i grandi maestri del passato, perché spesso ci si dimentica quanto sia stato grande il nostro cinema nel mondo. Sono emozionato e anche un po’ in imbarazzo a prendere premi dedicati a nomi così importanti”.
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