VENEZIA – “Il film si basa sulla memoria, ricordi con cui ho vissuto per tutta la vita, emersi in un periodo particolare, come in un teatro sempre aperto nella mia testa, con un cono di luce su momenti reali ma anche sognati, sfocati: ho scritto il film rispettando questo teatro della memoria. La prima persona a cui ho chiesto leggerlo è stato Marco Bellocchio, anche per il parere di un maestro: mi ha detto che quella forma di racconto andasse preservata, che era originale. È la storia di un rapporto universale, dei ricordi che mi hanno formata: condividerli è stato anche un omaggio a mio padre ma con carattere universale rispetto alla relazione padre-figlia, fondante perché ci vivi per tutta la vita, ma raccontata da pochi film. Con questo film ho pienamente disubbidito a lui e sono felice di averlo fatto: non mi sono chiesta quale sarebbe stato il suo parere, sarebbe stato paralizzante. Sono felice che si parli di lui, ho reso a modo mio un omaggio, per la sua importanza come regista e come padre. Con questo film lo ricordo e lo ringrazio”, così Francesca Comencini, figlia di Luigi Comencini, la più piccola, racconta l’essenza de Il tempo che ci vuole, Fuori Concorso a Venezia81.
Francesca è interpretata da Anna Mangiocavallo (bambina) e da Romana Maggiora Vergano, il papà è Fabrizio Gifuni.
La storia comincia dall’infanzia, lei è bambina, e il racconto – benché si sappia esserci intorno un contesto famigliare, una mamma, e le sorelle Cristina, Eleonora, Paola – è solo un passo a due tra figlia e papà, un gioco di complicità, di ammirazione e protezione, tutto contestualizzato nel tempo storico reale, come sottolinea anche la musica: i ritornelli de Il cuore è uno zingaro o di Stasera mi butto, con disseminati indizi del cinema di Luigi Comencini, come l’arrivo di una balena a Piazza del Popolo a Roma, che anticipa alla mente il suo Pinocchio (miniserie, 1972), spunto per far subito emergere la personalità di lei, bimba determinata, di precoce maturità e capace di empatia, pronta al confronto con l’adulto.
Per Fabrizio Gifuni, “la capacità di Francesca di comunicarci quanto questa storia personale dovesse diventare universale è stata subito chiara, così Romana e io siamo stati liberati dai fantasmi, lei da quello che stava realmente dietro la macchina da presa; io stesso era la prima volta che avevo un famigliare di un personaggio che interpretavo dietro la camera. Francesca ha creato con noi un gioco magico, una specie di atto psicomagico: un non tempo, un non luogo, quelli delle fiabe; infatti, Pinocchio è connaturato a questo racconto: nella disubbidienza, nella parabola della crescita, nella necessità di mentire. Si mischiava continuamente con la realtà, in alcuni momenti vivendola nei luoghi in cui sono davvero avvenute le cose, al contempo entrando in un luogo immaginifico. Mi sono sentito molto libero. Ho trovato in Romana una sintonia così forte che ha reso tutto più semplice”.
Per l’attrice, è stato “un onore e un privilegio il racconto in prima persona, poi è subentrato il terrore ma immediatamente alleggerito da Francesca perché il respiro – sin dalla sceneggiatura – era davvero universale: in sceneggiatura, infatti, sopra i ruoli dei personaggi di Fabrizio e mio, non c’erano scritti i nomi, ‘Luigi’ e ‘Francesca’, ma ‘padre’, ‘figlia’. Io volevo ardentemente fare il film, e sapere che Prima la vita poi il cinema fosse il primo titolo è stata un’epifania. Ho incontrato una regista che non cercava se stessa in me, ma è stata disponibile a lasciarsi sorprendere”.
Nel film, la figlia, del suo papà, trasferisce non solo la delicatezza e il saperci fare con la bambina che è stata, il suo sapersi mettere in gioco con l’infanzia della propria piccola, ma la sensibilità che Luigi Comencini ha sempre sentito e poi mostrato per quella particolare età della vita; era un sentimento non strumentale all’esigenza artistica, quella ne era l’espressione, ma tutto nasceva da un più intimo e primo senso del rispetto dell’individuo: il bambino, prima che di infante, è essere umano, lì in un delicatissima età, quella capace di sprigionare curiosità ma, altrettanto, quella in cui si è soggetti puri, da preservare e coltivare. “Prima la vita, poi il cinema. Prima la vita! e se non lo capisci è inutile che lo fai il cinema”, afferma lui in un passaggio, sotto l’occhio attento della sua ricettiva bambina.
“È come un film che avessi voluto fare per tutta la vita, sul mio rapporto più importante; ho passato la vita a cercare di non essere percepita come ‘figlia di…’ e superati i 60 anni mi son detta che la cosa che più profondamente sono è essere la figlia di quell’uomo, le cose più importanti me le ha insegnate lui. Ho scritto in pandemia, quando c’era un senso di smarrimento e solitudine: eravamo angosciati di perdere i cinema e il film è anche era una lettera d’amore per il cinema”, continua Comencini per cui Il tempo che ci vuole “non è stato un modo per riprendermi uno spazio, ho condiviso e collaborato ogni passaggio con le mie sorelle, ho avuto il loro sostegno e la vicinanza per tutto il film; ci sono scene madri quasi archetipali. ‘La memoria è un sempre aperto teatro’, diceva Patrizia Cavalli, qualcosa in cui tu destreggi i ricordi. Il film ha il desiderio di rimanere in una precisione di realtà, anche se poi trasfigurata, con avvenimenti sociali che sono stati traumi collettivi, che hanno generato un clima molto forte per chi allora si formava: c’era una sensazione di morte e di fine delle speranze, coinciso con l’uso di sostanze, di droghe, in cui molti – tra cui io – siamo incappati; ho voluto raccontare – anche – che una forma di dipendenza non sia uno stigma, ma una cosa seria, da cui ciascuno a modo suo può uscire, ‘anche a testa alta’ come dice il padre alla fine. C’era la vergogna allora, ma qui volevo trasmettere il senso di non-vergogna”, tema che ricorre insieme a quello del fallimento, “un momento molto importante su un concetto da comunicare anche ai giovani di adesso, per cui si performa con riferimenti a modelli apparentemente perfetti: è giusto che un regista di successo (Luigi Comencini) dica che tutta la vita sia stata un destreggiarsi col fallimento: bisogna trarne una lezione, è un insegnamento di valore”.
Sul fallimento, Gifuni cita Samuel Beckett, per cui “ho chiesto a Francesca di poter inserire quell’elogio alla fragilità: ‘fallire sempre, fallire meglio’. Nella vita, ho capito che prima s’introietta questo pensiero – cioè la possibilità del fallimento, prima ci si libera di una serie di cose. Quello che racconta il padre è quanto questo senso di fallimento lui lo continui a provare… Quella stortura ciascun essere umano la possiede, e si tratta solo di tirarla fuori. La civiltà occidentale ha costruito in maniera prepotente la cultura dell’essere performativi e noi eravamo molto determinati a raccontare questa cosa e quanto il potere della fantasia possa curare le ferite e trasformarle in bellezza”.
“Da 20enne, sperimento il senso di inadeguatezza e l’urgenza di raggiungere risultati” commenta Vergano, per cui il film mi ha insegnato che “il viaggio di comprensione di sé dura tutta la vita. Francesca mi ha permesso di capire che il fallimento possa essere crescita: è simbolica la scena in cui il padre le dice che è una fallita; lei, lì non trova un padre-mito, ma uno si abbassa fisicamente, si siede sul suo livello, un esempio in positivo per scuoterla subito: così inizia il viaggio di scoperta di se stessa”.
Da padre – reale – di figlie femmine, Gifuni riflette che “c’è un tempo per tutto, un tempo in cui è necessario comunicare più col corpo che con le parole, e un tempo in cui mettere in campo la fragilità di essere genitore, altrimenti si raccontano favole illusorie. La fragilità per un genitore è importantissima: è un ciclo vitale, c’è un momento in cui devi far crescere, ma poi c’è un momento in cui deve far succedere. È la prima volta in cui mi capita di piangere guardando un film che interpreto. È un film molto liberatorio”.
Poi, sullo schermo, la figlia cresce e quel suo papà, complice, maestro di vita mai salito in cattedra, per lei – così versatile, dal corso di telaio o di poesia all’imparare al fare il pane, “una creatura altamente influenzabile” come la definisce lui – si rivela: è anche lui un uomo, forse meno eccezionale di quello che ammirava da piccola, e l’importanza del portare a termine le cose, il senso del fallimento appunto, la verità, la capacità della mimesi, la provocazione come sprone, sono le trame dei loro confronti, mentre lei, mani e piedi, s’immerge nell’adolescenza prima, e nell’età adulta poi, fino alla frizione, perché “quanto era più facile finché ero una bambina; ma adesso, che sono una donna, è un bel casino, uhm, papà? … uguale a tutte le altre donne che tu, come tutti, tutti, sottilmente, tu educatamente ma visceralmente, disprezzi”.
Si cresce, s’invecchia, Moro è stato assassinato ma il rock’n’roll no, e quel padre decide di partire con sua figlia, destinazione Parigi, destinazione la prima volta (di lei) con un bebé tra le braccia e la prima volta dietro la macchina da presa: “ti sei gettata nella vita con coraggio … hai guardato tutte le tue contraddizioni … grazie a quel coraggio hai avuto il diritto di camminare a testa alta”, e di spiccare il volo…
Il tempo che ci vuole è prodotto da Kavac Film (Simone Gattoni, Marco Bellocchio), Les films du Worso (Sylvie Pialat, Alejandro Arenas, Benoît Quainon), IBC Movie (Beppe Caschetto), One Art (Bruno Benetti), Rai Cinema: il film esce al cinema il 26 settembre con 01 Distribution.
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