Faye Dunaway: “Sarò la divina Callas, ma a modo mio”

L'attrice, che a Locarno ha ricevuto il Leopard Club Award, sta ultimando un film sul celebre soprano, di cui oltre che interprete è anche regista


LOCARNO – Chissà se Faye Dunaway, l’icona per eccellenza della New Hollywood, sarà presente a Torino per la retrospettiva dedicata al cinema degli anni ’60 in America? Speriamo di sì. In ogni caso l’affascinante Bonnie di Gangster Story, che grazie al film di Arthur Penn ha turbato i sogni di intere generazioni, a Locarno si è presentata ancora in tutto il suo splendore: capello biondo lungo e carnagione bianchissima – messa in risalto da un elegante completo verde acqua – per ritirare il premio che il festival ha deciso di assegnarle, il Leopard Club Award. Per festeggiare il prestigioso riconoscimento oltre a rispolverare gli intramontabili Chinatown di Roman Polanski, proiettato nelle sere precedenti alla manifestazione e Network (Quinto potere) di Sidney Lumet, l’attrice americana si è messa a disposizione del pubblico per raccontare le tappe fondamentali della sua lunga e prolifica carriera, che – sottolinea fin dall’inizio – “è stata così fortunata anche e soprattutto perché supportata dai fan”. Un termine che la Dunaway intende nella sua accezione più vasta: “tutti gli spettatori sono fan – dice – non importa di quali attori o di che genere di film. La cosa fondamentale è che è grazie a loro che il cinema continua ad esistere e ad andare avanti”.
E poi è chiaro che contano gli incontri, aggiunge l’attrice che, ricordando i suoi esordi, cita subito Arthur Penn, il regista che appunto, nel 1967, la lancia nel cinema con il ruolo della fatale Bonnie, un’inquieta ragazza di provincia che innamoratasi del fuorilegge Clyde Barrow, decide di condividere con lui la vita e il tragico destino. “Di tutti i ruoli che ho fatto – afferma la Dunaway – il mio preferito continua ad essere proprio quello di Bonnie. Era difficile sulla carta, ma per me non lo è stato perché Bonnie in fondo sono io. Come lei anche io sono nata e cresciuta in un piccolo paese della Florida e conosco bene la mentalità di una provincia, in cui, sognando una vita migliore, puoi anche spingerti su strade sbagliate”.
E lavorare con Warren Beatty com’è stato? “Lui era il Clyde ideale. Un attore instancabile, sempre pieno di idee; alle volte anche troppo perfezionista. Ricordo che ci fu una scena che a causa sua girammo 32 volte; ma davvero era un uomo geniale. Fu lui tra l’altro a suggerire alla costumista il look di Bonnie. Uno stile che venne imitato anche nella vita vera!”. “Un’altra donna importante è stata quella che ho interpretato in Chinatown – continua – una donna misteriosa che come tutte le persone che nascondono un grosso segreto aveva delle continue nevrosi”. Parlando di grandi maestri il passo da Arthur Penn e Polanski ad Elia Kazan è veramente breve: “Kazan è il regista che ha insegnato un nuovo modo di recitare a tutti quelli della mia generazione, peccato che per motivi politici abbia lavorato poco. Con lui ho girato Il compromesso. Un film di cui ricordo le lunghe riunioni con gli attori per lavorare in profondità sui personaggi. Elia aveva una straordinaria capacità di farci lavorare sull’immedesimazione. È un regista che andrebbe ricordato di più anche perché sulla sua scia si sono affacciati al cinema cineasti come Sydney Pollack e Sidney Lumet”. Due autori con i quali la Dunaway ha lavorato per due film che sono considerati due capolavori della loro epoca: I tre giorni del condor e Quinto potere. “Con Lumet contava la velocità, il ritmo – sottolinea la Dunaway – e in quel film in particolare perché si parlava del mondo della televisione, di un futuro in cui tutto sarebbe stato più veloce, e in questo senso, la pellicola è stata profetica”.
E dopo tanto recitare (i ruoli sono i più vari, così come i registi, fra questi anche gli italiani Vittorio De Sica, Franco Zeffirelli, Lina Wertmuller e Carlo Vanzina) arriva la scelta di passare dietro la macchina da presa. Una scelta recente che nel 2001 la vede regista del corto The Yellow Bird e attualmente alle prese con il film ancora da finire, Master Class, tratto da un dramma teatrale di Terrence McNally che mette in scena alcuni momenti della vita di Maria Callas. Già nei panni della cantante d’opera più famosa del mondo in una delle tante rappresentazioni teatrali, la Dunaway oltre a firmare la regia di questo film, ne sarà anche interprete, trasformandosi ancora una volta nella “Divina Maria”.

09 Agosto 2013

Locarno 2013

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Werner Herzog da Elia Kazan ai Simpson

Il regista è stato l'ultimo attesissimo ospite del festival di Locarno, che gli ha consegnato il pardo d'onore Swisscom in occasione di un'affollata masterclass. "Un modello per me resterà per sempre il film Viva Zapata! di Elia Kazan - dice - il modo il cui Marlon Brando viene introdotto nella storia è veramente unico”. E racconta la sua esperienza di doppiatore nella celebre serie cartoon I Simpson, che per vent'anni ha creduto essere solo un fumetto: “Quando me l’hanno proposto - ha detto Herzog - credevo fosse uno scherzo, poi ho capito che I Simspon in tv esistevano davvero. Mi sono reso conto che erano evidentemente molti anni che non guardavo la televisione”

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L’impero barbaro e il male spietato

Presentati a Locarno i docu-film Pays barbare, di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi e E Agora? Lembra-me di Joaquim Pinto

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Si è conclusa il 17 agosto la 66ma edizione del Festival del film Locarno, con qualche sorpresa e molti premi a cinematografie emergenti. Il Pardo d’oro del concorso internazionale, gran premio Città di Locarno, resta però in Europa, e va a Historia de la meva mort di Albert Serra, ufficialmente targato Spagna/Francia ma realizzato in lingua catalana, che racconta gli ultimi giorni di vita di Giacomo Casanova, in modo romanzato e fantastico, immaginandosi il suo razionalismo messo alla prova da esperienze soprannaturali

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‘Sangue’ di Delbono vince il premio Don Chisciotte

Non è passata certo inosservata l'ultima opera da regista di Pippo Delbono, vincitrice del premio Don Chisciotte a Locarno, Sangue. Un film che ha diviso pubblico e critica – non senza polemiche – non solo per il racconto della morte senza filtri, quasi in diretta, della madre del regista, ma anche per la presenza del'ex brigatista Giovanni Senzani, anche lui orfano. Il premio è assegnato dalla dalla federazione internazionale delle società cinematografiche (FIIC/IFFS)


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