Ettore Scola: il mio Federico nel suo Teatro 5


Quale set più felliniano del mitico Teatro 5 di Cinecittà Ettore Scola poteva scegliere per il suo Che strano chiamarsi Federico! Scola racconta Fellini, omaggio a 20 anni dalla scomparsa del regista, sceneggiato insieme alle figlie Paola e Silvia. Un luogo simbolo di affinità e di unione per i due artisti. Se Fellini era di casa, nel vero senso della parola, in questo storico teatro di posa, Scola vi ha girato La famiglia e Il viaggio di capitan Fracassa. E sempre qui, grazie allo scenografo Luciano Ricceri, Scola ha ricostruito alcuni luoghi simbolo del rapporto tra i due registi.
Innanzitutto l’ufficio del direttore e la redazione della rivista satirica ‘Marc’Aurelio’ dove Scola appena 16enne fece il suo ingresso con i suoi disegni e conobbe Federico, che vi era approdato nel 1939, ma anche Maccari, Age, Scarpelli e Steno.

 

E poi il salotto della famiglia Scola quando Ettore, allora bambino, leggeva al nonno cieco una rubrica del ‘Marc’Aurelio’ tenuta da Fellini. In particolare la storia della ragazza dei bagni pubblici della stazione Termini, episodio ricostruito sempre in studio. E ancora il palcoscenico di un teatrino di avanspettacolo dove Maccari e Fellini, autori di testi comici, hanno il loro battesimo con un pubblico insofferente e vociante.
C’è anche la bellissima Lincoln, l’auto americana posseduta da Fellini, con la quale, soffrendo d’insonnia, vagabondava la notte insieme agli amici per la città, finendo in locali di via Veneto. Come l’inventato Caffè Giardino, ricostruito nel Teatro 5. E durante un’ennesima notte a zonzo Federico incontrerà nel film un madonnaro (Sergio Rubini) e una prostituta (Antonella Attili).

 

Le scene vedono protagonisti Tommaso Lazotti, Giacomo Lazotti e Ernesto D’Argenio rispettivamente nei panni di Fellini giovane, Scola giovane e Marcello Mastroianni; Maurizio De Santis e Giulio Forges Davanzati in quelli di Fellini e Scola anziani. 

La voce narrante è quella di Vittorio Viviani, la fotografia di Luciano Tovoli e le musiche di Andrea Guerra.
Non solo episodi di finzione compongono Che strano chiamarsi Federico!, il cui titolo è ispirato a un verso di una poesia di Federico Garcia Lorca. Si alternano materiali d’epoca, poco visti, scelti dagli archivi delle Teche Rai e dell’Istituto Luce, come le visite di Fellini sul set di Scola. L’omaggio è una produzione Paypermoon-Palomar, Istituto Luce Cinecittà con Rai Cinema e Cinecittà Studios, in collaborazione con Cubovision di Telecom Italia e con il sostegno della DG Cinema, e sarà distribuito da Bim e Luce.

 

Scola, le riprese sono terminate?
Sì, ora sono impegnato nel montaggio e nel missaggio. Non so quale oggetto verrà fuori. Tempo fa dissi che non avrei più girato un film, i motivi erano psicologici e politici. Non mi riconoscevo più nelle logiche che mi avevano guidato. Ho tenuto fede a quel patto per dieci anni, anche se non ritengo che questo mio lavoro sia un film o un documentario.

 

I colpevoli di questo ‘tradimento’?
Sono stato pressato da Roberto Cicutto, persona implacabile, e poi da Felice Laudadio, un’altra persona efferata, e poi dalle mie figlie Paola e Silvia che hanno insistito perché avevo parlato loro dei miei incontri con Federico.

 

Come ha pensato di ricordarlo?
Non c’è la solita silloge di repertori o scene di film. Non c’è il tentativo di ricostruire certe emozioni della sua visionarietà, per quello sono sufficienti i fotogrammi delle sue opere. E’ un film di tanti angoli, di piccoli ambienti, vicini l’uno all’altro, di luoghi di alcune emozioni provate durante i 40 anni di conoscenza di Federico.

 

La sua prima volta a Cinecittà?

Sono venuto nel ’36 con i miei genitori, già allora era aperta al pubblico, non si tratta di un’idea di Abete. Ricordo che Amedeo Nazzari scese da un’Alfa Romeo bianca coupé. Quell’incontro con il grande attore provocò in me una fascinazione per il mondo del cinema.

 

Cos’era il ‘Marc’Aurelio’?
A parte i tanti collaboratori come Metz, Zavattini e Campanile, era un piccola università dell’umorismo con le sue tecniche precise e con un obiettivo: ispirarsi alla realtà per modificarla. E’ questo che differenzia l’umorismo dalla comicità. Rappresentava una zona di critica al fascismo.

E’ d’accordo con chi considera Fellini un regista lontano dalla politica?
No, era un autore fortemente politico. Come non ricordare la sua satira sul fascismo in Amarcord, o quella sul maschilismo. E non posso dimenticare il suo intervento sul settimanale ‘Panorama’ e al Teatro Eliseo contro la pratica delle interruzioni pubblicitarie dei film messi in onda dalla reti televisive di Berlusconi, all’epoca della vicenda del mio film Passione d’amore. Federico, uomo di grandi principi, s’accendeva di sdegni furibondi, interventi violenti contro i soprusi fatti ai film e ai loro autori.

 

Nel suo film si ritrova anche l’universo felliniano del sogno?
Moltissime scene dei suoi lavori sono debitrici di soprassalti onirici. Spero che nel mio film ci sia questa avventura della vita di Federico che ogni giorno veniva arricchita dagli stimoli del sogno, oltre che della realtà.

 

Perché la scelta di inserire il personaggio di Marcello Mastroianni?
E’ uno degli attori che ci hanno legato. Per Federico era il suo alter ego. Io ho sceneggiato una decina di film con protagonista Marcello. Grazie alla sua natura e dolcezza è stato il tramite affettuoso tra me e Federico. Rispetto a Sordi e Gassman aveva una personalità più attenuata e perciò era più facilmente costruibile e adattabile.

 

Un ricordo di Fellini?

Fitte telefonate all’alba per una settimana e poi il silenzio per un mese. Si cenava insieme ed è venuto più volte a casa mia. Si lamentava dell’aria provocata da una ventola in cucina e si copriva con cappotto e sciarpa: “Domani questa cena la pago con un’influenza”.

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