Donne senza nome: un film riemerso dal nulla

Un “all stars movie” sfortunato, andato perduto e finalmente restaurato in 4k. Un capitolo cruciale per rintracciare una storia del cinema italiano a cavallo della guerra


Se vi dicessero che nello stesso film appaiono Simone Simon (da La bête humaine a Cat People a La ronde), Valentina Cortese (da La corona di ferro in cui fece coppia con Gino Cervi a Effetto notte per cui fu candidata all’Oscar), Vivi Gioi (da Rose scarlatte del debuttante Vittorio De Sica a Caccia tragica di Giuseppe De Santis), Irasema Dilian (la “fidanzatina d’Italia”, adorata dal pubblico tra Maddalena zero in condotta e Ore 9 lezione di chimica). E che nello stesso cast ci sono anche Gino Cervi e Lamberto Maggiorani, mentre al soggetto contribuisce Corrado Alvaro, non frughereste negli annuari di cinema alla ricerca di un simile “all stars movie” nel periodo d’oro di Cinecittà?

La risposta si chiama Donne senza nome, un titolo del tutto introvabile fino ad appena ieri e nominato di sfuggita anche nel Dizionario del cinema italiano (Gremese, 1991) o nelle segnalazioni del Centro Cattolico Cinematografico del 1950. Visto (da pochi) alla Mostra di Venezia nella retrospettiva “Questi fantasmi” curata da Tatti Sanguineti nel 2009 è da pochi giorni disponibile in Dvd grazie al restauro curato da Viggo per la collana di Ripley’s Home Video.

All’epoca non fu un successo, pur appartenendo a un filone neorealista in voga con titoli – poi rivalutati – quali Tombolo di Giorgio Ferroni o La città dolente di Duilio Coletti. Ma oggi la sua suggestiva storia merita di essere raccontata di nuovo. Non solo quella del film, ispirato a un’inchiesta giornalistica di Corrado Alvaro (pubblicata da “Il Messaggero” nel 1947) su la Casa Rossa di Alberobello in Puglia, ma anche quella – davvero singolare – del progetto, ricostruito nelle note d’accompagno al Dvd da Emiliano Morreale. “Il regista Geza von Radvanyi – scrive Morreale – è una figura affascinante e abbastanza misteriosa: ungherese di nascita, attivo sotto il nazismo in Germania, dove aveva sposato la figlia della diva Lil Dagover e poi la compatriota Maria Tasnady, insieme a quest’ultima era arrivato in Italia nei primi anni ’40. Ma soprattutto, Radvanyi era il fratello di Sandor Marai, che in seguito sarebbe stato riconosciuto come uno dei più grandi scrittori ungheresi del ‘900 (e che più o meno in quel momento si trovava anche lui in Italia, ospite di uno zio della moglie che dirigeva un altro campo profughi, a Bagnoli). Il film, peraltro, è anche un punto d’incontro di artisti mitteleuropei, perché la fotografia è di Gabor Pogany, anche lui ungherese, e la musica del romeno Roman Vlad, futuro musicologo di fama – entrambi arrivati in Italia alla vigilia dello scoppio della guerra. Senza voler forzare, un certo tono visivo da cinema europeo d’anteguerra si innesta in effetti sull’impianto neorealistico, con una musica dissonante e certi chiaroscuri (si veda la scena del “processo” informale alla donna tedesca)”.

La storia poi è affidata a un pugno di dive passate e future che, fianco a fianco con interpreti non professionisti, ripercorrono la vicenda di un centinaio di donne affidate nell’immediato dopo-guerra alla “custodia” di un campo di smistamento che in passato era stato un carcere fascista, poi un luogo di raccolta di gerarchi e fiancheggiatori del regime all’indomani dell’8 settembre ’43, infine la masseria dove raccogliere donne considerate “indesiderabili”, donne straniere di tutta Europa ex-collaborazioniste o prostitute o sbandate al seguito degli Alleati o senza documenti: con loro erano internati tanti bambini, anch’essi rifiutati da tutte le società civili.

Nonostante la censura dell’epoca (siamo al tempo de “i panni sporchi si lavano in famiglia”) nel film si parla di amori lesbici, rabbia contro la politica politicante, desiderio di umanità, pacifismo, afflato internazionale. “In conclusione – scrivevano i censori – un film di atmosfere torbide, ossessionate, morbose. È al fondo un messaggio contro la guerra, contro i campi di concentramento che prolungano le guerre. Ma questo messaggio dovrà essere portato sullo schermo maggiormente purgato ed espresso in termini e modi più castigati, senza gli eccessi anzidetti”.

Una curiosità nella curiosità: nel suo bel libro “Nazisti a Cinecittà” Mario Tedeschini Lalli annota che nel cast figura, nei panni di un ufficiale americano Otto Wachter, criminale nazista in quel momento ricercato in tutta Europa, morto prima dell’uscita del film in circostanze ancora dubbie. Il restauro del film deriva da un master appositamente realizzato a partire da una copia positiva nitrato, della quale è stata fatta una scansione 4K.

Insomma non si tratta solo di una rarità per appassionati, ma di un capitolo cruciale per rintracciare una storia del cinema italiano a cavallo della guerra che deve essere ancora raccontata in mille pieghe nascoste.

02 Luglio 2023

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