Cinema e arti marziali: dalla Cina all’Esquilino con furore

Dagli allenamenti monastici di Shaolin ai colpi di frusta di Hollywood, fino al nostro Gabriele Mainetti: il viaggio del cinema marziale è costellato di rivoluzioni


Il cinema delle arti marziali è un universo a sé: una galassia di calci rotanti, allenamenti sotto cascate e saggi maestri che dispensano perle di saggezza tra una bastonata e l’altra. Più che un semplice sottogenere dell’action movie, è una forma d’arte che combina fisicità, spettacolarità e, nei casi migliori, filosofia. Eppure, definire il genere non è semplice: un film di arti marziali deve avere solo combattimenti spettacolari o anche una narrazione intrisa di disciplina e crescita personale? E i film con le sparatorie alla John Wick, dove le mosse sono prese pari pari dal kung fu, rientrano nella categoria?

Dalla Cina della dinastia Qing ai vicoli noir di Hong Kong, dagli allenamenti monastici di Shaolin ai colpi di frusta cinematografici di Hollywood, il viaggio del cinema marziale è costellato di rivoluzioni e rielaborazioni.

La Cina: la culla del cinema “marziale”

Il primo film di arti marziali nasce in Cina nel 1928, con The Burning of the Red Lotus Temple. Ma il vero boom avviene negli anni ’70, quando la Golden Harvest e la Shaw Brothers trasformano il kung fu in spettacolo da esportazione.

Bruce Lee, con la sua espressività da felino e i suoi colpi micidiali, rompe le barriere culturali e porta il kung fu in Occidente, spalancando le porte al genere. Il suo impatto va oltre il cinema: il suo stile, il Jeet Kune Do, mescola discipline diverse e sfida la rigidità delle arti marziali tradizionali, mentre la sua filosofia di autodisciplina e autodeterminazione ispira intere generazioni. Con film come I 3 dell’Operazione Drago (Enter the Dragon) e L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente (The Way of the Dragon), Lee eleva il genere a fenomeno globale, imponendosi come icona culturale e modificando per sempre la percezione degli attori asiatici a Hollywood.

La sua carriera, sebbene tragicamente breve, ha lasciato un segno indelebile nel cinema e nella cultura pop. Bruce Lee non è stato solo un attore straordinario, ma anche un filosofo e innovatore. Il suo Jeet Kune Do non era solo una tecnica di combattimento, ma un’idea rivoluzionaria: un’arte marziale senza rigidità, adattabile e basata sull’efficienza e sulla spontaneità. In un’epoca in cui gli attori asiatici erano relegati a ruoli stereotipati, Lee ha aperto la strada a una nuova rappresentazione, mostrando al mondo un eroe che non era solo un combattente imbattibile, ma anche un uomo dotato di intelligenza e carisma.

Oltre ai suoi film, Lee ha influenzato generazioni di cineasti e atleti. La sua tecnica di combattimento è stata studiata e reinterpretata da artisti marziali e coreografi d’azione di tutto il mondo. Il suo impatto si riflette anche nella musica, nei videogiochi e nei fumetti: da Dragon Ball, il cui protagonista Goku è ispirato a lui, fino alle citazioni in film contemporanei come Kill Bill.

Dopo Lee Verso Wuxia

A seguire, Jackie Chan e il suo kung fu acrobatico, una fusione di agilità e comicità slapstick che lo ha reso unico nel panorama marziale; Jet Li con il suo fulmineo wushu, espressione di una disciplina elegante e letale al tempo stesso, capace di coniugare tecnica e potenza scenica; Donnie Yen con il suo ipnotico Wing Chun, portato alla ribalta con la saga di Ip Man, dove ha mostrato un mix di velocità e precisione che ha ridefinito il genere. Senza dimenticare Michelle Yeoh, che con la sua grazia e determinazione ha abbattuto gli stereotipi sulle protagoniste femminili nel cinema d’azione, e Zhang Ziyi, che con la sua intensità drammatica e fisicità ha contribuito a creare alcune delle scene più iconiche del wuxia moderno, da La Tigre e il Dragone a Hero.

Il wuxia, tradizione cinematografica che fonde arti marziali ed epica letteraria, è stato reinterpretato anche da cineasti d’autore. Wong Kar-wai, con The Grandmaster, ha donato al genere una dimensione visiva sofisticata e contemplativa, mentre Zhang Yimou, con capolavori come Hero e La foresta dei pugnali volanti, ha innalzato il wuxia a esperienza pittorica, tra coreografie liriche e cromatismi evocativi. Ang Lee, con La Tigre e il Dragone, ha reso il genere accessibile al pubblico occidentale, enfatizzando l’introspezione dei personaggi oltre la spettacolarità dei combattimenti. Anche autori come Hou Hsiao-hsien con The Assassin hanno sperimentato con il wuxia, depurandolo dall’azione frenetica per concentrarsi su un’estetica minimale e su una narrazione rarefatta, in cui il silenzio e il gesto diventano strumenti di espressione potentissimi.

Negli anni 2000, l’Indonesia e la Thailandia si inseriscono prepotentemente nel panorama con The Raid e Ong-Bak, mentre Hollywood risponde con il mix di coreografie orientali e blockbuster patinati. Nel frattempo, Quentin Tarantino, con la sua ossessione per il cinema di Hong Kong, infila omaggi marziali ovunque, da Kill Bill a Once Upon a Time in Hollywood.

La Cina è vicina?

L’Italia e il cinema di arti marziali hanno avuto storie d’amore piuttosto sporadiche e spesso fuori dal ring. Certo, Bud Spencer e Terence Hill hanno riempito le sale con scazzottate leggendarie, ma lì si trattava più di una versione burlesca della rissa da osteria che di kung fu. Negli anni ’80 e ’90, alcuni registi italiani hanno flirtato con il genere, producendo film che mescolavano arti marziali ed exploitation (I Cinque del Condor, Karate Kimura), ma senza mai decollare veramente.

Oggi, però, arriva Gabriele Mainetti a sparigliare le carte con La città proibita, il primo vero tentativo di portare un kung fu movie made in Italy al grande pubblico.

Dopo aver rielaborato il cinema supereroistico con Lo chiamavano Jeeg Robot, Mainetti osa ancora, mescolando il cinema delle arti marziali con l’anima di Roma. Il film segue Mei, una giovane esperta di arti marziali che giunge nella capitale alla ricerca della sorella scomparsa. Lungo il cammino, incontra Marcello, un cuoco romano, e insieme si ritrovano invischiati nel lato oscuro della città.

Il film ci regala coreografie spettacolari, un mix di culture e una Roma mai vista prima. Mainetti stesso ha dichiarato: “Amo il cinema di arti marziali, il kung fu di Hong Kong, e volevo farlo dialogare con il nostro cinema. Il risultato è una ‘città proibita’.”

Le arti marziali al cinema sono in continua evoluzione, da Shaolin ai bassifondi di Roma. Mentre Hollywood continua a rielaborare il genere e il cinema asiatico sforna nuovi capolavori, l’Italia entra finalmente nel ring con una proposta ambiziosa. Riuscirà La città proibita a dare il via a una nuova stagione di cinema marziale nostrano? Staremo a vedere. Intanto, allacciate la cintura nera e preparatevi a colpi e coreografie che promettono di lasciare il segno.

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23 Marzo 2025

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