Bertolucci: “Per Ultimo Tango Belmondo mi disse no, troppo osceno”

La serie degli Incontri Ravvicinati, faccia a faccia tra un artista e il direttore Monda, ha visto protagonista Bernardo Bertolucci, che ha generosamente e affettuosamente ripercorso il suo cinema


La serie degli Incontri Ravvicinati, faccia a faccia tra un artista e il direttore Antonio Monda, stasera ha visto protagonista Bernardo Bertolucci, che ha generosamente e affettuosamente ripercorso parte della sua storia con il cinema, raccontandosi, come un padre e un amante di quest’arte. Gli anni ’60, quelli della sua formazione, ma anche della Nouvelle Vague, del Cinema Novo Brasiliano e di quello polacco: “Il cinema ha dovuto accettare quello che stava accadendo, nelle strade. Io avevo un amore per Godard così aggressivo che avrei picchiato qualcuno se avessi saputo che non amava i suoi film. Ma alla fine degli anni ’60, dopo Partner, un po’ folle, ho girato La strategia del ragno, nella mia Bassa Padana, era l’estate del ’69, in cui eravamo un po’ tutti in stato di grazia. Lì mi arrivò anche la conferma di poter fare Il conformista, dal romanzo di Moravia”.

Del film Bernardo Bertlucci ha scelto una scena: una sequenza in cui Marcello – Jean Louis Trintignant – torna nel suo condominio parigino e sente le voci della moglie, Stefania Sandrelli, e di Dominique Sanda, in una situazione un po’ ambigua. Il romanzo e il film, però, non terminano allo stesso modo, fa notare Monda, che così dà voce a Bertolucci: “Per me era inaccettabile, il finale del romanzo racconta della fuga da Roma, dopo l’8 marzo ’43 – la costituzione della Repubblica di Salò, con un caccia che uccide la famiglia dall’alto, invece io ho finito con un primo piano di Trintignant che capisce se stesso e la sua vita, uno che per paura di essere diverso dagli altri e per questo si uniforma, c’è sempre una punizione dal cielo, ma metaforica. Ho scelto, poi, questa sequenza perché è una sequenza per parlare del voyeurismo: Trintignant diventa voyeur e forse Dominique se ne è accorta”.

Da qui la conversazione apre una appassionata riflessione sul voyeurismo: “Il voyeurismo mi interessava perché, chi ama usare la macchina da presa, è un voyeur, senza giudizio o condanna; quando io mi metto con l’occhio sul foro della macchina, soprattutto in quegli anni in cui avevo iniziato l’analisi freudiana, non posso che identificarlo con la serratura di una stanza, quella dei genitori che fanno l’amore. E al cinema divento senza freni su questo argomento. Bresson è un altro voyeur”. E Bresson prende ora la scena del racconto del regista parmense, nel ricordo comico di un episodio di vita vera: “Nel ’64-65 era a Roma a girare il primo episodio de La Bibbia, prodotta da Dino De Laurentiis, che arrivando un giorno sul set vide una serie numerosissima di coppie di animali, così lo chiamò orgoglioso di essere riuscito a fargli fare un lavoro così mastodontico. Ma Bresson gli disse che si sarebbero viste solo le orme. De Laurentiis lo cacciò e io ebbi occasione di incontrarlo proprio quella sera”. Il racconto della carriera continua e torna sul personale stretto: “Ultimo Tango a Parigi nacque da una paginetta che diedi ad un piccolo produttore americano, che mi disse che voleva produrre un film. Da qui venne poi la storia. La Paramount mi disse di no, perché Brando voleva troppo: distributori coglioni che non sapevano di avere in moviola il padrino! Andai alla United Artist che mi avrebbe supportato se fossi riuscito a produrre con un milione di dollari: così tornai in Italia e Grimaldi mi sostenne. Andai poi da Belmondo a Parigi a proporgli la parte, quasi mi cacciò, dicendo che era scandaloso; poi da Delon, che avrebbe accettato ma voleva anche produrlo, quindi non si fece. Incontrai Brando al Raphael di Parigi, gli raccontai in un inglese pessimo, in due minuti, il film, lui era stanchissimo dal viaggio da Los Angeles e io, dopo un po’, gli chiesi perché non mi guardava in viso: voleva vedere se smettevo di muovere il piede! Ero nervosissimo. Poi, prima di girare portai Brando, Storaro, Scarfiotti ad una mostra di Francis Bacon e lì tutti capirono cosa sarebbero stati i primi piani”.

Il piccolo Buddha, l’Oriente: cosa voleva raccontare, Bertolucci, da Parma alla Cina? “Il giallo Parma è identico al giallo imperiale, questa fu la prima cosa di cui mi accorsi. Lessi Da imperatore a cittadino, dell’ultimo imperatore, e mi appassionai moltissimo: partimmo per Pechino, era la Cina dell’84, prima dell’apertura che vedemmo anche girando questo film, due anni dopo. La scena dell’incoronazione contava migliaia di comparse, oggi sarebbe stato possibile con il digitale, ma il giorno prima di girare in un cortile della Città Proibita mi ritrovai per caso in un giardino con 60 giovani, soldati dell’esercito cinese prestati al film, e diversi barbieri e i grandi mucchi di capelli: mi fecero scappare, ebbi nella mente visioni terribili, per dire che il cinema a volte ti porta a visioni tremende anche fuori dal film stesso”.

Bertolucci citando un film in cui le scene corali erano maestose – e oggi sarebbe stato più semplice realizzarle – riflette anche sulla tecnologia: “la amo molto, non so se avrò ancora molto tempo per approfondirla, ma all’inizio, anche solo quattro anni fa quando ho girato il mio ultimo film, Io e te, mi è sembrata troppo definita, mancava quel flou minimo, quel po’ di fuori fuoco, che fa parte della pellicola, così decisi per quest’ultima un’altra volta, ma ora farei tutto in digitale perché è tutto da esplorare, forse è così nitido da entrare addirittura nell’intimo del personaggio, chissà”. Bertolucci è Parma, è la Bassa Padana, che sempre ricorda e così Novecento diventa imprescindibile, tra racconto cinematografico e intimo: “Novecento ha avuto una vita complessa. Durava 5 ore e 10 minuti e il produttore decise che andasse tagliato a 3 ore, per il contratto americano: io tentennai, lo prese, lo fece tagliare, io non l’ho nemmeno visto e non venne distribuito. Erano i soliti della Paramount, che poi ci fecero fare una versione di 4 ore, ma secondo me perdeva molto del respiro lento del film. Non sono mai riuscito ad amare le versioni ridotte, però è un film che ho fatto perché volevo tornare nella terra di mio padre, Attilio, che mi ha insegnato tutto, la poesia, il cinema – portandomi quanto era critico de La gazzetta di Parma: il primo film che vidi quando ero bambino fu Biancaneve, terrificante e sadico – e poi era un ipocondriaco, ed è stato una scuola di ipocondria non indifferente! Novecento esiste perché io dovevo fare un omaggio a mio padre, riferendomi al suo poema “La camera da letto”. Poi, una cosa curiosa: il personaggio di Depardieu si chiama Olmo, un nome che non esisteva. In fase di scrittura mi venne in mente Olmo, perché nel ’73-74 ci fu un’epidemia che colpì queste piante e chiamandolo così pensavo di salvare tutte le piante della specie. Ma la cosa bella fu che tantissimi bambini da lì presero il nome: quindi in qualche modo la malattia degli Olmi fu superata!”.

Godard
e Rossellini, i grandi amori: “ho dovuto metabolizzare le grandi influenze che ebbero su di me. Tanto, tantissimo di loro c’è nel mio cinema: devo ammetterlo, anche perché, soprattutto i registi che amo, sono stati dei ladri di cinema! L’importante è non farsi scoprire. Ma amavo anche la direzione severa e rigorosa di Bresson, piani fissi, lunghissimi movimenti di macchina, anche se sono sempre appartenuto a quella direzione più generosa, che esce quasi dallo schermo”.  

15 Ottobre 2016

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