7 sconosciuti e un hotel diviso in due

Il film d'apertura è 7 sconosciuti a El Royale, opera seconda di Drew Goddard – candidato all'Oscar per la sceneggiatura di The Martian – che qui scrive, produce e dirige un noir in piena regola, anch


Avvio in noir – genere che predomina in questa edizione – per la tredicesima Festa del Cinema di Roma, la quarta diretta da Antonio Monda. Si parte con un aumento delle prevendite dell’8% e il raddoppio, a grande richiesta, dell’appuntamento con Martin Scorsese, che incontrerà il pubblico prima della proiezione di San Michele aveva un gallo dei fratelli Taviani, restaurato a cura di Istituto Luce Cinecittà, mercoledì 24 ottobre alle ore 16 in Sala Petrassi.

Il film d’apertura è Bad Times at the El Royale (7 sconosciuti a El Royale), opera seconda di Drew Goddard – candidato all’Oscar per la sceneggiatura di The Martian, creatore della serie Netflix Daredevil e regista di Quella casa nel bosco – che qui scrive, produce e dirige un noir in piena regola, anche un po’ nostalgico, ambientato alla fine degli anni ’60 – sotto la presidenza Nixon – in un hotel che sorge esattamente sul confine tra la California e il Nevada, con metà delle camere in uno Stato e metà nell’altro (le stanze californiane costano un dollaro di più). In questa sperduta località sul lago Tahoe si ritrovano, in una notte di tempesta, sette sconosciuti. Ognuno di loro ha uno scheletro nell’armadio. C’è un misterioso sacerdote affetto da amnesie (Jeff Bridges), la cantante soul (Cynthia Erivo) dalla voce bellissima ma dal passato doloroso, il concierge reduce dal Vietnam ed eroinomane (Lewis Pullman), il rappresentante di aspirapolvere dalla doppia vita (Jon Hamm), la bella cowgirl armata di tutto punto (Dakota Johnson) che ha nel portabagagli un ostaggio (Cailee Spaeny), il palestrato santone di una setta erotomane (Chris Hemsworth)… Inoltre l’albergo è costruito in modo che da un corridoio segreto si possa spiare attraverso dei falsi specchi ed eventualmente riprendere con una cinepresa ciò che accade nelle stanze, in una delle quali è nascosto il bottino di una rapina avvenuta dieci anni prima. 

A Roma, per presentare il film, Drew Goddard è accompagnato da una delle interpreti, la giovane Cailee Spaeny. Il regista ha ammesso l’influenza di Tarantino, dei Coen e anche di Sergio Leone nella tecnica di ripresa e nel formato. “Amo gli anni ’60 e volevo che il film li evocasse, per questo ho usato la pellicola, anche per una questione emotiva. Mi piace il fatto che i colori siano in qualche modo imprevedibili, mi piace la memoria della pellicola, quel qualcosa di indescrivibile, diverso dal digitale. In più ho girato in anamorfico perché avevo bisogno di un fotogramma ampio con una resa simile a quella di un capolavoro di Sergio Leone come C’era una volta il West, dovevo avere tutti i miei personaggi dentro una stessa inquadratura”. 

Quanto a Tarantino, evocato nell’uso di una violenza insistita e stilizzata, con personaggi verbosi e improvvisi spargimenti di sangue, ma anche per un certo sottotesto religioso, spiega: “Come chiunque sia cresciuto negli anni ’90, è impossibile sfuggire all’influenza di Tarantino e dei Coen, che sono tra i più grandi cineasti di tutti i tempi, si tratta di geni, che si muovono tra i generi con coraggio. Prima delle riprese ho fatto vedere Barton Fink alla troupe”.

Netta la distinzione tra lo sceneggiatore e il regista, due ruoli che Goddard alterna quasi a compatimenti stagni. “Mi vesto addirittura in modo diverso. Quando scrivo sono fedele ai personaggi e alla storia, non penso al cast e me ne frego del budget. Poi finisco di scrivere, licenzio lo sceneggiatore e passo alla fase più divertente con la scelta degli attori e delle location. Sul set ci sono tanti momenti sorprendenti. Infine c’è il montaggio, solo lì cogli tante sfumature”.

Parlando della straordinaria location, un hotel anni ’50, un po’ decadente, isolato e lugubre, diviso in due dal confine di Stato, spiega che voleva che riflettesse la doppiezza dei personaggi, perché nessuno è quello che sembra. “Il motel rispecchia tutto questo”.

Il film, che uscirà in sala il 25 ottobre con la Fox, è strutturato per dare spazio, via via, ai diversi personaggi, come se venissero sotto ai riflettori per un assolo. “Mi piacciono le storie in cui non sai chi è il protagonista, volevo farli comparire uno dopo l’altro”. Si parla molto di violenza contro le donne in 7 sconosciuti a El Royale: c’è qualche collegamento col #MeToo? “Il film l’ho scritto cinque anni fa quindi non potevo sapere che il movimento sarebbe esploso, ma questi mali non sono nuovi, gli abusi sulle donne avvengono da secoli e finalmente oggi si fa luce su questo fenomeno. Erano temi attuali negli anni ’60 e lo sono tuttora, adesso dobbiamo combatterli”. E non manca il riferimento a Charles Manson e alla sua setta. “Oggi c’è in giro molta mascolinità tossica, uomini che approfittano dei più deboli, degli innocenti, sessismo e razzismo sono temi più che mai attuali”.

Qualche difficoltà a girare una storia che si svolge nell’arco di 12 ore in un solo luogo? “Beh, non è stato facile, abbiamo dovuto girare tutto in continuità, stando attenti a non modificare il set anche nei minimi dettagli. Per il cast è stato bello, quasi un’esperienza teatrale, l’evoluzione dei personaggi va di pari passo al racconto, in sequenza cronologica, quasi in tempo reale”.

Un film sulla decadenza del sogno americano, che tra Vietnam e presidenti corrotti, diventa incubo? “Non so se il sogno americano sia un incubo. So che stiamo attraversando tempi oscuri e cupi ma che in ogni tempo c’è una luce in fondo al tunnel. Così nel film c’è un percorso di redenzione e un finale di speranza. E’ l’arte che si salva e ci salva, in questo caso la musica”.

18 Ottobre 2018

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