Wenders sconosciuto


W.WendersBERLINO – Non lo sapeva nessuno. Wim Wenders stava per morire di overdose. E dopo essere stato ripreso per i capelli, dopo essere stato giorni tra la vita e la morte, ha deciso che avrebbe fatto film. Siamo abituati a vedere il più famoso regista tedesco come un tipo calmo. Dietro gli occhiali, gli riconosciamo una saggezza, una silenziosa forza che per molti lo hanno fatto essere più di un regista: un punto di riferimento. I suoi film, meditativi, ricchi di silenzi, di sguardi assorti sulle persone, di umana compassione. Di sentimento del tempo. Quanto di più vicino alla pace, a un sentimento di pietà e di amore verso gli altri, verso gli uomini.

Ma non si immagina che quell’uomo calmo sia stato percorso da fremiti di inquietudine terribili. La politica, gli arresti subiti, i vagabondaggi tra Parigi, Francoforte, Monaco. La prima ragazza che lo lascia, per il suo migliore amico. E le droghe, infine la psicanalisi per tornare fuori dall’abisso. Quando leggevi le biografie di Wenders, sembrava tutto bello, tutto in qualche modo pieno di senso: anche le giornate passate tutte intere alla Cinémathèque Francaise a vedere anche quattro o cinque film al giorno. E invece, erano tappe di un brancolare nel buio. Anche vedere i film, voracemente. Anche iscriversi alla scuola di cinema di Monaco, che ancora era un embrione, informe, con ragazzi che non sapevano cosa avrebbero fatto da grandi.

 

E’ lo stesso Wenders a raccontare tutto questo, in Von Einem der Auszog, un documentario su di lui girato da Marcel Wehn, e presentato oggi alla Berlinale, in una sezione minore. La prima inquadratura mostra Wenders oggi, 61 anni, occhiali alla Albrecht Durer. Che guarda lo spettatore, inghiotte un lungo, infinito silenzio. E che dice: “Che cosa hanno in comune i miei film? Che cercano di rispondere alla domanda: come devo vivere?”. Ed è questo, lo capisci, che fa Wenders diverso da tutti gli altri registi. Nei suoi film, non vuoi sapere come va a finire. Ma come dobbiamo, come dovremmo vivere. Non nel senso della bontà, dell’etica. Ma in quello, più profondo, di come dare un significato ai propri giorni. A quello che facciamo. Al nostro stesso sguardo.

 

La cosa straordinaria del film del giovane Marcel Wehn, 29 anni, faccia vagamente wendersiana, è che vediamo protagonisti del cinema più mitico di Wenders, e che li ritroviamo, trent’anni dopo, con un tuffo al cuore. Mi ero sempre chiesto che fine avesse fatto Alice, la bambina di Alice nelle città : di tanto in tanto, notizie vaghe mi avevano rassicurato sul suo esistere. Ma non la avevo mai rivista. Adesso, 34 anni dopo quel film, nel quale era una bambina, rivediamo gli stessi occhi. Racconta quell’esperienza, quegli straordinari momenti di verità al cinema. Racconta di Wenders che la abbracciava, la proteggeva. E mentre la vedi sullo schermo, cerchi di ritrovare quegli occhi, quella ostinata forza, quella innocenza e maturità insieme. E come per miracolo, per un attimo, la ritrovi.

 

Ci sono interviste con Bruno Ganz, l’attore del Cielo sopra Berlino, con Lisa Kreuzer, sua attrice e compagna, con la sua prima moglie. Ci sono le immagini dei suoi sgranati super 8, quelli che girava a quindici anni. C’è il volto di Wenders bambino, quindicenne, ventenne, trentenne. La sua straordinaria serietà, nel parlare, sempre. E c’è un uomo che, a sessant’anni e più, in riva a un lago, scoppia in una risata. Una di quelle che probabilmente, da ragazzo, non si era concesso mai.

16 Febbraio 2007

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