ROMA – Ci sono registi che, a un certo punto della propria carriera, acquisiscono una confidenza in se stessi tale da sfidare ogni tipo di convenzione. Al suo 13° film, Fabrizio Ferraro è sicuramente uno di questi, o forse lo è sempre stato. Presentato alla Festa del Cinema di Roma 2023, Wanted è un lungometraggio ermetico, un thriller noir che si veste di distopico quasi senza sforzo, raccontandoci un mondo – o meglio una Roma – in cui i quartieri vengono svuotati forzatamente e in cui una polizia misteriosa veglia su ogni nostra scelta. Protagoniste sono tre donne (Chiara Caselli, Denise Tantucci, Caterina Gueli), i cui destini si intrecciano, nel tentativo di fuggire da una realtà opprimente.
Nonostante il film sia stato scritto prima della pandemia, Ferraro disegna scenari metafisici alienanti, che sembrano allontanarsi dalla realtà che ci circonda per, in realtà, indagarla con ancora più attenzione. “Un film, anche quando vuole intercettare il futuro o i movimenti del presente, è sempre archeologia. – dichiara il regista – Si parte da quello che si ha, da quello che si sedimenta nei luoghi, in questo modo le traiettorie che si cerca di intercettare hanno sostanza. Il tentativo era quello di differenziare il testo del film e il paesaggio del film, che hanno una diretta rispondenza”.
Tra le location scelte c’è anche Cinecittà, ma non nel senso in cui siamo abituati. Dentro gli studi di via Tuscolana – rappresentati palesemente in quanto tali – si tengono gli inquietanti interrogatori a cui sono costrette alcune delle protagoniste. “Non c’è mai stata l’idea di fare un film di distanza da quello che vivevamo. – spiega Ferraro – I grandi studi cinematografici di Sebastopoli sono stati occupati dalle truppe militari per esercitazioni, è questo quello ci sta accadendo intorno. L’apparato dell’immagine e comunicativo sta entrando al servizio delle logiche di propaganda. Pensavamo che quei luoghi, con tutta la loro storia e il loro fascino, dessero la possibilità di legarci ancora al cinema, a chi c’è stato e alle immagini che ci sono state, per inserire degli elementi di resistenza a delle trasformazioni, non per fare qualcosa che richiamasse il passato, ma per trovare una nuova forma di esser presenti, anche dentro Cinecittà”.
L’approccio registico è a dir poco minimale, con lunghe scene a camera fissa, movimenti di camera minimi e montaggio essenziale. Anche la musica accompagna con toni gravi un racconto che vuole essere disturbante nel profondo, che preferisce evocare piuttosto che raccontare, forzando lo spettatore a unire i puntini. “Ho cercato di non cadere nei luoghi comuni di quello che facciamo. È un film radiografico di alcuni meccanismi. Non a caso, per intercettare la profondità che cercavo, nella colonna sonora c’è Anton Webern, che utilizza tutte e 12 le note, non solo le canoniche 7”.
“Fare un film è una cosa molto difficile, faticosa. – conclude il regista – Il film pone degli interrogativi, ha tutti gli elementi per arrivare ad avere una visione. Lo spettatore diventa un partecipante attivo, una cosa che ovviamente avviene sempre, ma qui vengono completamente ribaltate le prospettive su chi produce la visione in un film. Il valore dell’opera, visto che c’è il thriller, la tensione, sta nel movimento di quello che accade. La cosa più immobile tra tutte è il cinema, però nello stesso tempo è la cosa in cui c’è più movimento, perché produce in noi una possibilità, che è quella di andare oltre le definizioni. Chi ha letto la mia sceneggiatura ha saputo andare oltre il testo, perché si cercava quello che si muoveva tra i confini”.
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