Il 10 dicembre 1954 esplode il mito popolare di Alberto Sordi, l’Albertone nazionale. È la sera della prima di Un americano a Roma e in quel momento pochi scommettono che il suo Nando Mericoni, riuscita macchietta nel precedente film a episodi Un giorno in pretura, abbia costituzione abbastanza robusta per reggere un film da protagonista. Ci credono invece il regista Steno (papà di Carlo e Enrico Vanzina) che firma entrambi i film e che per l’occasione si è affidato anche alla penna del giovane Ettore Scola insieme ai fidi Sandro Continenza e Lucio Fulci, anche aiuto-regista e inventore del personaggio. In pochi giorni le memorabili battute dell’”unico americano nato e cresciuto a Trastevere” nel mito degli yankees fanno il giro d’Italia. Del resto il suo “Maccarone … m’hai provocato e io te distruggo adesso, maccarone! Io me te magno!” diventerà leggenda fino a superare la barriera del tempo per entrare nel lessico dei cinefili e in quello della pubblicità.
Nel ’54 Alberto Sordi è già una voce familiare per gli italiani grazie al successo alla radio dove era già un divo fin dal dopoguerra; in teatro lo conoscevano per la gavetta nell’avanspettacolo e al cinema – dove pure era approdato presto – non aveva avuto immediato successo coi primi film di Fellini (Lo sceicco bianco e I vitelloni). Con l’inizio degli anni ’50 (31 film girati in quattro anni) tutto cambiò. “Non avevo le physique du rôle, il fisico di un attore comico – ha raccontato -. Non c’era niente in me che facesse ridere, così mi ci volle molto tempo per arrivare al successo, sia in teatro sia al cinema. Mi venne allora l’idea di utilizzare un canale più diretto, più diffuso, la radio, (…) proporre un personaggio attorno al quale sarebbe stata costruita la trasmissione, insomma una forma di ‘divismo’ radiofonico che allora non esisteva”. Sono queste le armi che porta sullo schermo e improvvisamente il suo personaggio “funziona”. Oltre alla mimica, a metà tra l’imbarazzo, la strafottenza e l’ingenuità da eterno bambinone, è la sua parlata romanesca mischiata a un inglese da grammelot che rende memorabile Un americano a Roma. Se ne ricorderà anche Christian De Sica che lo imita nei film dei Vanzina usando “papi” e “mami” per darsi un contegno quando chiama in causa i genitori.
Naturalmente il successo del film ha anche altri padri, prima di tutti un regista che padroneggia da maestro i tempi comici e Steno aveva già dato prova di sé come vignettista al “Marc’Aurelio”, dietro la cinepresa a fianco di Monicelli e Totò, poi in solitario da Totò a colori a Un giorno in pretura. I titoli dei film da lui diretti segneranno un’epoca. Sono una costola di quel cinema popolare che trae linfa dalle radici del neorealismo e dalla commedia dell’arte per descrivere bonariamente un’Italia minore, ingenua e arrembante nella febbre della ricostruzione, disegnata con tratto vivido e improvvisato da un regista ironico, sensibile allo spirito dei tempi e, a volte, dissacrante. Nando Mericoni ne è in fondo l’emblema con la sua sete di americanità che, alla metà degli anni ’50, ha ancora vivo il ricordo degli americani liberatori, arrivati dieci anni prima nelle strade di Roma con le sigarette, il chewing gum, i soldi, i regali dispensati a piene mani. La sua stanzetta è un vero album di cimeli: dalla mazza da baseball al falso autografo di Betty Grable, dalle foto di Tom Mix con la faccia di Nando ritagliata al posto del divo western alla mitica Harley Davidson con cui si pavoneggia per far colpo sulla fidanzata Elvira (Maria Pia Casilio, la giovane maggiorata di Pane, amore e fantasia). Va al cinema tutte le sere Mericoni, trasporta i suoi miti di celluloide nella sua realtà parallela citandoli da esperto, si illude di essere un vero americano che sogna di “tornare a casa” fino al gesto estremo: un annunciato suicidio dall’ultimo anello del Colosseo se non gli verrà garantito il passaggio aereo e un lavoro dall’altra parte dell’oceano. Gli andrà male una volta di più perché l’ambasciatore americano, chiamato a garantire per lui, scoprirà all’ultimo momento che il povero Nando lo aveva fatto finire fuori strada per la sua ansia di dare indicazioni in uno strampalato inglese. Nando è peraltro convinto di essere padrone della lingua inglese, che invece ignora completamente: nella sua parlata si mescolano espressioni in romanesco ed inglese approssimativo (come Polizia der Kansas City e “orrait orrait”, deformazione di all right, all right), oppure completamente inventate come il molto ripreso “auanagana”.
Fin dalle prime inquadrature di Un americano a Roma siamo immersi in una città che è il sogno degli americani (Vacanze romane è dell’anno prima): Piazza del Popolo, la fontana di Piazza Barberini, i Fori ripresi con uno smagliante Bianco&Nero dall’operatore Carlo Montuori; poi interviene la squadra dei “battutisti” che sfrutta al meglio l’estro del protagonista, ma sfaccetta con arguzia una colorita folla di caratteristi come Carlo Delle Piane (alias Cicalone), Galeazzo Benti (che fa il verso a Mike Bongiorno), Leopoldo Trieste, Carlo Mazzarella, Vincenzo Talarico e gli impagabili genitori (Giulio Calì e Anita Durante). Curiosità ormai ben nota: a un party appare anche la giovanissima Ursula Andress mascherata col nome di Astrid Sjostrom, ma chiamata a fare il verso a Ingrid Bergman nella sua stagione italiana. Curiosità meno nota: gli amanti della musica riconosceranno anche il grande jazzista Carlo Loffredo tra gli amici di Nando.
I critici rimproverano a Un americano a Roma di non aver sfruttato a fondo le potenzialità sociologiche del soggetto, limitando a una versione di facciata il rapporto tra l’Italietta della ricostruzione e il sogno americano. Ma i produttori Ponti&De Laurentiis – allora affiancati in un sodalizio che trasformò l’industria del cinema italiano – avevano mire ben più immediate, decisero di girare il film in giro per la città anziché a Cinecittà ed esercitarono un controllo ferreo sulla sceneggiatura per creare ogni volta situazioni di sicuro impatto comico e immediata riconoscibilità di una città che oggi guardiamo con una fitta di nostalgia. E va detto che a 70 anni di distanza il risultato è ancora raggiunto in pieno. Nella bella versione restaurata del 2008 da Ripley’s e CSC insieme a Sky, il film dice forse oggi più di ieri sullo sfondo picaresco in cui si muove Nando Mericoni. Nonostante il travolgente successo italiano, poi riverniciato dalla critica francese alla scoperta della commedia all’italiana, Un americano a Roma ebbe la gloria di una prima alla Carnagie Hall di New York solo nel 1985. Era rimasto invece impresso sia nella memoria di Alberto Sordi che riprese il personaggio in Di che segno sei? (Sergio Corbucci, 1975) sia in quella di Carlo Verdone alle prese col piatto di…spaghetti in Borotalco (1982). Ma, si sa, Verdone aveva un forte debito di rinascenza col maestro e il suo personaggio di Sergio Benvenuti deve molto all’immortale Mericoni.
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