Vittorio De Sica è una figura monumentale nella storia del cinema, non solo italiano, capace di intrecciare la propria anima di attore e regista in un corpus unico votato alla poetica dell’essere umano.
Il grande critico francese – guru e ispiratore della nouvelle vague – André Bazin scrive che per comprendere De Sica “dobbiamo tornare alla fonte della sua arte, vale a dire, alla sua tenerezza, al suo amore. La qualità condivisa in comune tra Miracolo a Milano e Ladri di biciclette… è l’affetto inesauribile dell’autore per i suoi personaggi.” Il 13 novembre ricorrono i 50 anni dalla scomparsa e CinecittàNews rende omaggio al grande Maestro.
Il rapporto di De Sica con il cinema è prima di tutto un atto d’amore, come sottolinea Maria Mercader, sua seconda moglie, che nel libro La mia vita con Vittorio De Sica racconta l’affetto che Vittorio sa infondere non solo nelle persone a lui vicine, ma anche nei suoi film.
La sua visione non è mai orientata al narcisismo, ma profondamente umanistica e impregnata di pietas. Perfino i film più tragici, come Umberto D. (1952) – il suo preferito, punta altissima della stagione neorealista ormai in declino e dedicato al suo amato padre – esprimono una commovente attenzione verso gli ultimi, evidenziando l’occhio del regista come uno specchio che riflette la vita e la ragione che la fa esistere.
“Il suo rapporto con il cinema è anch’esso una storia d’amore. Una storia d’amore particolarmente intensa, vissuta in maniera molto personale e tuttavia carica di importanti implicazioni obiettive, che riguardano il cinema e la poesia (il fare cinema) in generale”, scrive il critico Franco Pecori, che riconosce nel regista una capacità unica di mescolare etica e poetica.
Nato nel 1902 a Sora, vicino a Roma, De Sica trascorre l’infanzia a Napoli, una città che influenza profondamente la sua sensibilità artistica. Suo padre, Umberto De Sica, un impiegato di banca con esperienze giornalistiche, apre le porte del mondo dello spettacolo al giovane Vittorio, il quale debutta presto come attore. Ancora adolescente, inizia a cantare canzoni napoletane in spettacoli amatoriali, e successivamente si dedica al teatro, dove si impone come un vero e proprio idolo delle matinée negli anni ’30. Collabora con il regista Mario Camerini in una serie di film leggeri, ma il suo destino è altrove: la regia.
La sua svolta come regista avviene con il quarto film, I bambini ci guardano, frutto della prima collaborazione con lo sceneggiatore Cesare Zavattini. Quest’opera, che anticipa il neorealismo con il suo sguardo empatico sulla solitudine di un bambino, segna l’inizio di un sodalizio che definisce un’intera stagione cinematografica. De Sica dimostra una sensibilità unica nella direzione degli attori, in particolare dei bambini, come poi conferma con Sciuscià: ritratto dell’amicizia tra due ragazzi nella Roma del dopoguerra. Il film riceve un Oscar speciale e viene elogiato da Orson Welles e Luis Buñuel per la sua autenticità emotiva.
Con Ladri di biciclette (1948), De Sica realizza uno dei film italiani più noti e rappresentativi del neorealismo, unendo un cast di attori non professionisti e riprese in esterni per dipingere un ritratto indimenticabile della povertà post-bellica. La storia semplice ma universale di un uomo disperato dopo il furto della sua bicicletta colpisce il pubblico di tutto il mondo, mantenendo ancora oggi un posto di rilievo nella storia del cinema.
Questi film, girati con attori non professionisti e ambientati in scenari reali, portano il mondo a scoprire la devastazione e la speranza del dopoguerra italiano. Tuttavia, in Italia vengono spesso criticati da chi li ritiene “antipatriottici” per la visione cruda della realtà che offrono.
Durante gli anni ’50, De Sica è spesso costretto a scegliere ruoli commerciali per far fronte ai suoi debiti, come nel caso del film Stazione Termini, una produzione internazionale. Nonostante le difficoltà, continua a realizzare film significativi come Il tetto (1956), una storia d’amore neorealista su una coppia alla ricerca di una casa, che evidenzia il suo impegno sociale e la sua sensibilità verso i temi della povertà e dell’emarginazione. O come Miracolo a Milano (1951), che vince il Grand Prix a Cannes e L’oro di Napoli del 1954, una commedia a episodi con un cast che comprende attori quali Silvana Mangano, Totò e un’allora sconosciuta Sophia Loren. In uno degli episodi, De Sica interpreta un conte afflitto dalla dipendenza dal gioco, in una sorta di autoironia sulle sue stesse difficoltà finanziarie.
Gli anni ’60 segnano un periodo di transizione: da una parte i successi commerciali ottenuti insieme a Sophia Loren, come La ciociara (per cui la Loren vince un Oscar) e Matrimonio all’italiana, dall’altra la consapevolezza di essersi dovuto adattare a un cinema meno personale. De Sica ammette con amarezza: «Non posso essere soddisfatto di quel che ho fatto come attore e regista. Mi sono dovuto piegare a un tipo di cinema prettamente commerciale, privo di personalità, ispirazione, originalità, eccezione. Quel che aveva valore per me, è rimasto solo in me. I produttori non riescono a vedere alcuna poesia nei sentimenti degli uomini. Sono inquieto, disturbato. Oggi vorrei riconquistare la mia indipendenza, il distacco dai mercanti di pellicole».
Negli anni ’70, il suo talento trova una nuova fioritura con Il giardino dei Finzi-Contini (1970), una struggente riflessione sulla memoria e la perdita che gli vale il quarto Oscar per il miglior film straniero.
De Sica è un poeta del cinema, capace di riflettere la vita e i sentimenti umani con una delicatezza rara. Come egli stesso dichiara, “l’occhio del regista è come uno specchio che riflette l’immagine… Essi cercano la vita, e la ragione che fa esistere la vita”. Il suo legame con Zavattini e con il neorealismo definisce una stagione irripetibile del cinema italiano, ma la sua arte va oltre un’etichetta, rappresentando un vero e proprio atto d’amore verso l’umanità e la sua fragilità.
Vittorio De Sica muore nel 1974 a Parigi, lasciando un’eredità cinematografica che ancora oggi commuove e ispira. A cinquant’anni dalla sua scomparsa, il suo sguardo continua a riflettere l’essenza dell’essere umano, con tutte le sue luci e ombre. Un cinema fatto di emozioni vere, di volti che raccontano storie, di un’Italia che ha saputo ritrovare la propria voce attraverso la macchina da presa di un maestro. Essere “desichiani”, oggi, significa abbracciare quella stessa umanità e credere ancora nel potere del cinema di raccontare la vita.
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