Tutti in piedi per Martin Scorsese, “re per una notte” alla Quinzaine

Il regista ha ricevuto la Carrosse d'Or e mostrato "Mean Streets", del 1974 alla Quinzaine des Realisateurs


CANNES – “Tutti siamo destinati a sparire, anche il cinema, ma perché dovremmo sparire ora, se possiamo evitarlo? Il cinema mi ha dato tantissimo, mi ha segnato, tutti devono poterne godere”. Lo ha detto Martin Scorsese – grande regista impegnato anche nel restauro con la sua Fondazione – a conclusione del lungo incontro alla Quinzaine des Realisateurs di Cannes per suggellare la Carrosse d’Or che gli è stata consegnata in occasione della 50° edizione della sezione indipendente. Per ascoltarlo, centinaia di spettatori hanno fatto una lunghissima fila sotto il sole e poi hanno (ri)visto Mean Streets, il suo film del 1974 con Harvey Keitel e Robert De Niro, storia di un’amicizia fraterna tra i pericoli del quartiere degli immigrati italiani. Poi lo hanno accolto con una sentita standing ovation, preludio a una conversazione del cineasta con i suoi emozionati colleghi francesi Jacques Audiard, Cedric Klapisch, Rebecca Zlotowski e Bertrand Bonello. Un incontro molto cinefilo, ricco di aneddoti e ricordi, in cui non ha trovato spazio l’attualità. Ma Scorsese – il cui The Irishman è finanziato proprio dalla piattaforma streaming – aveva già avuto modo di commentare la “questione Netflix”, sempre più scottante a Cannes: “Bisogna approfittare della tecnologia e delle circostanze. Ma, cosa ancora più importante, bisogna continuare a fare film”.

MEAN STREETS – LA PRIMA VOLTA A CANNES
“Quando venni a presentare Mean Streets era la mia prima volta a Cannes ed è stata quasi la migliore: potevo ancora godere dell’anonimato e feci molti incontri eccitanti con produttori, attori e registi, come Wenders e Herzog. Quello era un periodo di grandi scoperte, non solo di nuovi autori, ma anche di riscoperte di cineasti poco conosciuti”.

“SI PUO’ ESSERE BUONI IN UN MONDO CATTIVO?”
“Con Mean Streets cercavo di rispondere a una domanda che aveva accompagnato la mia crescita e la mia percezione di ragazzo che viveva in un ambiente pericoloso, circondato da persone dure e persone buone, ma anche di malavitosi che sapevano essere buoni. Mi chiedevo come si potesse avere una vita moralmente giusta in un mondo che non lo era. Se vivi in un brutto posto sei destinato a essere cattivo? Mi facevo molte domande anche sulla questione della responsabilità e degli obblighi verso la famiglia. Mi ci sono voluti anni per capire che Mean Streets era un film su mio padre e mio zio, su un rapporto tra fratelli e sulle sue sfide morali, filosofiche, esistenziali”.

L’INFANZIA
“Ero un ragazzino asmatico della classe operaia, l’unico modo per aprirmi al mondo era il cinema, la musica e la possibilità di collegarli alla realtà che stavo vivendo. All’inizio l’unico modo in cui potevo esprimere le mie idee era disegnando”.

“NON SI RIMEDIA AGLI ERRORI IN CHIESA, MA IN STRADA”
“Nella mia famiglia, crescendo, ho sperimentato un grande amore, ma sapevo che intorno a me c’era qualcosa di sbagliato. Vivevo una dualità. Ho capito presto che si va incontro al male non in chiesa, ma tutti i giorni, per tutta la vita, e bisogna farci i conti. Quando ero piccolo ho avuto un mentore molto importante, un prete che mi ha fatto leggere molto e mi ha fatto conoscere il cinema: ha avuto una grande influenza su di me. Grazie a lui ho potuto esplorare i concetti di amore e compassione, e ho scelto il lato giusto attraverso l’arte. L’alternativa sarebbe stata la violenza e il crimine”.

L’UMORISMO
“L’umorismo è importantissimo, la vita è una tragicommedia quotidiana. Vince sempre chi ride e l’umorismo è fondamentale per l’arte, per la creazione. Anche uno psicopatico potrebbe sedurci con l’umorismo”

IL DISAGIO DI ‘RE PER UNA NOTTE’
“E’ stata dura girare Re per una notte, mi sentivo molto a disagio, al punto che la mattina non volevo presentarmi sul set. Credo che derivasse dal fatto che mi identificavo troppo in Rupert. L’ultima volta che ho visto Jerry Lewis, lui aveva 91 anni e mi disse: ‘Se quando lavoro non mi sento a mio agio vuol dire che c’è qualcosa che non va, che non dovrei essere lì. Ecco, l’esperienza di Re per una notte per me è stata claustrofobica e disturbante, ma Jerry è stato molto paziente”.

“ARE YOU TALKING TO ME?”
La famosa scena di Taxi Driver in cui De Niro dice allo specchio ‘stai parlando con me?’ nacque da un felice incidente: “Bob ha iniziato a ripetere quelle frasi e io avrei dovuto fermarlo perché stavamo sforando con i tempi, ma non potevo non approfittare di quel momento creativo”.

09 Maggio 2018

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