Il suo esordio alla regia avviene con il documentario Ritratto di un rapinatore (era il 5 marzo 1981, sulla Rai): Giuseppe Tornatore aveva 25 anni e a soli 30 esordisce nel lungometraggio con Il camorrista, dal romanzo di Giuseppe Marrazzo, sulla storia di ‘O Professore ‘e Vesuviano – così viene chiamato il boss camorrista Raffaele Cutolo, interpretato da Ben Gazzarra: il film vince il Nastro d’argento come Miglior Regista Esordiente.
In quello stesso 1985 del set del film, contestualmente al film, Tornatore gira anche Il camorrista – La serie, dimostrandosi ante litteram su una tendenza dell’entertainment più strettamente recente: “il produttore Goffredo Lombardo della Titanus mi propose di realizzarne anche una versione a puntate per la televisione. Un azzardo in anticipo sui tempi; la febbre della serialità era ancora lontana, ma grazie alla lungimiranza di Lombardo disponemmo del budget utile alla realizzazione del progetto. Lombardo mi disse che il film era molto complesso, e mi chiese se mi sentissi di fare la serie insieme al film: dissi sì, anche perché mi dava l’opportunità di raccontare più dettagliatamente il libro di Marrazzo. Fu un colpo di genio di questo produttore: talvolta un’esigenza produttiva ti fa venire un’idea straordinaria”, commenta il regista.
“Mio padre conobbe Tornatore nell’82, io avevo 17/18 anni. Nacque subito una simbiosi tra loro, si diedero subito del ‘tu’, cosa rara per papà. Si sono presi due geni: mio padre e Giuseppe Tornatore”, secondo Guido Lombardo – presidente Titanus.
Non è mai andata in onda, però, La Serie e così, quasi quarant’anni più tardi è stata rielaborata e presentata in anteprima alla Festa del Cinema di Roma 2023, prodotta da Titanus Production e RTI – Mediaset, distribuita da Minerva Pictures.
“Noi girammo film e serie insieme, è un concetto che non arriva con facilità. Io avevo scritto il film e scrissi anche la versione a puntate, ma con gli stessi attori, le stesse scene, una situazione anomala. Io ero preso dall’entusiasmo e Goffredo me lo chiese pensando che il racconto seriale non fosse morto con la fine degli sceneggiati. Quando il film uscì – con ottima accoglienza di critica, con anche una proiezione nell’auletta di Montecitorio – arrivò subito una querela di Enzo Tortora: gli era stato detto che nel film c’era un’allusione a lui, poi la ritirò; non ho mai avuto una motivazione. Subito dopo arrivò la querela di Raffaele Cutolo e poi dell’assessore Ciro Cirillo; Cutolo aveva querelato anche il libro, sequestrato e poi riammesso. Sul film non fu chiesto sequestro ma sparì dalla sale. Dopo 9 anni di udienze il tribunale ci assolse. Lombardo ci rimase male ma non fu sorpreso perché disse il film era scottante, diceva che l’ultima parte fosse forte – quella in cui si racconta della collusione camorra-servizi segreti; la serie fu tenuta ferma, e ufficialmente sparì. Quando il film fu assolto era tardi per ridargli una vita”, spiega Tornatore.
Il regista ricorda che “il film fu accolto per quello che voleva essere: un atto di denuncia, di conoscenza, per rendere più forte la lotta contro il fenomeno. Io condivido il sentimento di (Claudio) Salvia, sono solidale al suo dolore – dice Tornatore, riferendosi alle esternazioni del figlio dell’allora vicedirettore del carcere di Poggioreale, Giuseppe, ucciso dalla camorra quando lui aveva solo tre anni, ed espressosi contro la serie -, però ho il sospetto che la sua reazione sia viziata dall’ equivoco che la serie sia stata girata ora, e non 40 anni fa. Io rivendico la prospettiva del film. È sempre il pubblico che decide, ma non si può dire che il film e la serie siano un insulto alle vittime della camorra, non lo riconosco e non lo posso accettare. Ci interrogammo al tempo e facemmo una cosa che ancora oggi trovo straordinaria: abbiamo deciso di creare un sorpasso sul meccanismo ‘di simpatia’ che si potrebbe innescare per il criminale, creando un camorrista più camorrista di lui, che è Alfredo Canale (Nicola Di Pinto). Ritengo all’epoca di essere stato accorto, grazie anche all’esperienza di Massimo De Rita (con cui il film è stato sceneggiato). All’epoca abbiamo fatto bene a porci il problema e a disinnescare il meccanismo: il cinema che s’è occupato di questa materia, e ha aiutato a conoscerla, con tutti gli effetti collaterali eventuali, ci ha permesso di conoscere e combattere questo mondo con più consapevolezza”.
Per Leo Gullotta, tra gli interpreti del film e della serie, “Il camorrista raccontava per l’epoca una cosa nuova: i fatti di quel momento, e Tornatore ha lavorato sul materiale senza discostarsi dalla realtà, solo cambiando i nomi propri. Rivedere oggi questa storia è un modo di riflettere, guardando con un altro occhio. Peppuccio ha inventato quello che oggi è un boom: la serie. Ha anticipato i tempi. Dal libro di Marrazzo è venuta fuori la Storia di un’Italia, questa Italia: la serie per il pubblico sarà importante per far riflettere e riconsiderare tantissime cose”.
Facendo un passo indietro, la storia del film e della serie, racconta ancora Giuseppe Tornatore, nasce perché “quando ero programmista presso la Rai di Palermo, ma non ero interno – facevo le sostituzioni di malattie e maternità – conobbi Joe Marrazzo, lo ammiravamo tutti, poi era molto simpatico, e io lo avevo coinvolto per una consulenza su Cento giorni a Palermo; lui mi raccontò che stava scrivendo questo suo primo romanzo, portandosi dietro una macchina da scrivere e i fogli che teneva in macchina, ma in quel periodo la camorra gli faceva saltare le macchine, tanto che lo ricominciò tre volte. Alla fine lo lessi e pensai che la camorra aveva avuto due grandi film, uno di Zampa, uno di Rosi, poi quelli folkloristici con Merola, ma nient’altro; sul fenomeno si sapeva poco, ancora doveva arrivare la stagione delle confessioni di Buscetta, per cui i gruppi criminali parevano infallibili, agendo nel buio. C’era stato Il padrino, ma lì non c’era l’arco della nascita dell’organizzazione, che c’era invece ne Il camorrista di Marrazzo: lui fu generoso, mi fece incontrare il suo editore Pironti, che mi diede l’opzione per un anno; purtroppo Joe non fece in tempo a leggere nemmeno la sceneggiatura. Per me la criminalità andava combattuta conoscendone le miserie umane. Una volta Cutolo, quando i giornalisti andavano a intervistarlo alle sbarre, e gli fu chiesto del film, disse: ‘mi dispiace questo film lo abbia dovuto fare un siciliano’. Una cosa vagamente minacciosa”.
Sempre sulla genesi del progetto, Tornatore racconta anche che per il ruolo poi interpretato da Gazzarra “all’inizio ho avuto in testa Volontè, ma non riuscivo a contattarlo, non avevo un curriculum che mi consentisse certi approcci, ma come alternativa avevo in mente Ben, per cui ebbi la fortuna di conoscere Vittorio Squillante, suo agente, conosciuto su Cento giorni a Palermo: gli portò la lista dei miei documentari, tra cui Diario di Guttuso, e Gazzarra chiamò proprio Guttuso: lui gli disse che ero il figlio di Peppino, che lui conosceva, entrambi erano nati a Bagheria, e… Ben accettò sul mio entusiasmo e sulla simpatia che gli aveva trasmesso Guttuso”.
Poi, ricorda ancora Tornatore, “il film fu visto in Commissione Censura e mi fu detto: ‘o taglia o prende il divieto ai minori di 14 anni’, e scelsi la seconda. E non mi fu fatto tagliare niente. La serie ha più fatti, una tessitura più stretta di episodi. Per il film, a differenza del romanzo in soggettiva, abbiamo scelto un approccio oggettivo: questa struttura ci porta a un naturale cambio di ritmo che io rincorrevo, che mi sembra salutare per un racconto di cinque puntate”.
Il restauro è stato curato dallo stesso Tornatore: “dopo circa quarant’anni, grazie alla ripresa produttiva del glorioso marchio Titanus: quelle cinque ore sono riemerse dall’ombra e Guido Lombardo mi ha chiesto di restaurarle e rieditarle. Ho aderito volentieri all’impresa, che ha comportato una nuova scansione in 4k dei supporti originari, un’innovativa color correction, un prodigioso rifacimento del suono mono riconvertito in 5.1, e il resize in formato 16:9 dall’originale 1:33. Il colore era andato completamente perduto, era praticamente tutto rosso. È stato un lavoro che non mi sarei mai aspettato di fare; rimettere le mani, aver l’opportunità di migliorare le cose, è stato un privilegio. Io ho trovato solo i difetti di un film d’esordio, ma anche tanta passione: lì mi sono ritrovato. Il montaggio è rimasto intatto ma con lievi alleggerimenti per ridurre la durata di ciascuna puntata a circa 45/50 minuti”.
Così come Ben Gazzara era – ed è – il protagonista del film, altrettanto lo è della serie, e con lui Laura Del Sol, Luciano Bartoli, Franco Interlenghi, Marzio Honorato, Cloris Brosca, Jean Pierre Duriez; ricordando alla fotografia Blasco Giurato e alle musiche Nicola Piovani.
Giuseppe Tornatore, oltre a essere alla Festa con questo progetto, un caso piuttosto unico nella Storia del cinema e dell’audiovisivo, il 26 ottobre è ospite di un incontro con il pubblico, non solo sulla serie, quanto più sulla sua propria esistenza di creatore di storie e visionario delle stesse in forma cinetica.
Titanus infine conferma che “sicuramente il pubblico fruirà a breve dell’opera, con una distruzione internazionale molto importante, con il distributore Curti che proprio in questi giorni sta scegliendo una piattaforma”.
Dulcis in fundo, Giuseppe Tornatore, interpellato sui fondi alla cultura commenta che “da sempre tutti coloro che sono coinvolti nella sfera del finanziamento hanno cercato di capire quale fosse il film più di successo per finanziarlo, ma non è possibile prevederlo. È invece possibile, talvolta, fare in modo che film di valore non restino invisibili, che acquistino visibilità. Il cinema ha bisogno di intelligenze che sappiano intercettare e diffondere opere di valore. Decidere in partenza chi abbia il diritto di vivere e chi non abbia diritto, non è possibile; sono d’accordo con Bellocchio quando dice che il cinema ha bisogno di risorse per esprimere la sua creatività” e sullo stato della Cultura pensa che “tutte le volte che c’è stato un cambio di governo ci sono state ripercussioni, e la cosa ci può piacere a seconda del nostro punto di vista: mi può colpire che si decapiti la dirigenza di un ente prima che finisca il mandato, sono cadute di stile, ma io mi fido della Cultura, la Cultura vince sempre, al di là delle declinazioni del potere”.
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