Thomas Vinterberg, nostalgia della comune

Il regista danese è in concorso a Berlino con un film ispirato alla sua infanzia, quando viveva con i genitori e la sorella in una comune a Copenhagen


BERLINO – E’ una storia molto personale quella che il danese Thomas Vinterberg racconta in The Commune, in concorso a Berlino 66. Dopo Il sospetto, angosciante vicenda di un maestro d’asilo accusato di pedofilia e ostracizzato da un’intera comunità, ecco un altro personaggio messo alle corde dalla vita. E’ Anna (Trine Dyrholm), anchor woman di successo sposata al docente di architettura Erik (Ulrich Thomsen): lei insiste per usare la grande villa che il marito ha appena ereditato dal padre per fondare una comune. Così accanto alla coppia e alla loro figlia quattordicenne vengono ad abitare alcuni amici piuttosto eccentrici, qualcuno completamente spiantato: tutto verrà condiviso, dai pasti alle spese per la birra, che scorre copiosa, alla sauna in giardino. Siamo negli anni ’70 e l’idea fa parte di un’ideologia un po’ hippy, comunitaria e libertaria, che contagia anche i borghesi. Ma non Erik, che sembra da subito subire la decisione e che ben presto intraprende una relazione con una giovanissima studentessa. Ma Anna vuole a tutti i costi restare fedele alle sue idee e accoglie la nuova compagna del marito nella comune… con conseguenze che si possono immaginare.

La sceneggiatura, scritta insieme a Tobias Lindholm, autore anche de Il sospetto, si basa appunto sull’esperienza diretta del 46enne regista. “Dall’età di 7 anni e fino a 19 ho vissuto in una comune. E’ stato un periodo folle e fantastico, ero circondato da corpi nudi, birra, discussioni intellettuali, amori e tragedie: avevo davanti a me un intero catalogo di stranezze, mi bastava uscire dalla mia stanza”. Nella Copenhagen degli anni ’70 lo spirito comunitario era condiviso anche da una parte della classe media: “docenti universitari, professionisti…mio padre era un critico… vivevano secondo uno stile di sinistra, erano atei, si sentivano spiriti liberi pur non essendo figli dei fiori. Tutto il contrario di oggi, perché oggi le persone vivono in solitudine, isolate. E devo dire che ho una certa nostalgia di quei tempi”.

E tuttavia se la prima parte del film è piena di gioia e utopia, e anche lo stile del film piuttosto leggero, la seconda ci mostra il lato più tetro e doloroso delle relazioni umane e una sorta di perdita dell’innocenza per la figlia della coppia, costretta a subire le conseguenze delle decisioni dei genitori e a soffrire i loro drammi. “Le cose finiscono – commenta il regista – ed è una cosa che anche oggi, da adulto, non mi riesco a spiegare. Ho incontrato le persone che hanno vissuto con la mia famiglia negli anni ’70 e li ho trovati completamente cambiati, intristiti, quasi tutti divorziati e tanto invecchiati”. Anche il film finisce per essere, più che una rievocazione di un’epoca in cui l’individualismo non aveva ancora prevalso su tutto il resto, il ritratto di una donna profondamente idealista che rimane intrappolata nel suo modo di vivere anticonformista e a suo modo generoso. “Io non credo nelle relazioni aperte – commenta Vinterberg – ma apprezzo che ci abbiano provato, apprezzo i miei genitori, e tutti quelli della loro generazione, uomini e donne nati negli anni ’50, in un periodo molto tradizionalista, che hanno tentato di scappare dalla banalità della vita quotidiana, di superare le sue trappole. La loro era un missione complicata, ma averla vissuta durante l’infanzia mi è servito. Rispetto alla società di oggi, in cui tutti sono molto soli, e il bisogno di stare insieme è stato rimpiazzato dall’individualismo, il mio film vorrebbe essere un incoraggiamento per ripensare ai tempi in cui sono cresciuto. Naturalmente si può essere soli anche vivendo in una comune, e il mio film mostra anche questo. Insomma abbiamo tentato di essere sinceri in tutto, di mostrare le luci e le ombre di questo stile di vita”.

Per il regista, che ai suoi inizi aveva fondato insieme a Lars Von Trier il celebre manifesto Dogma 95, non è più possibile fare cinema in quel modo. “Quello che doveva essere un movimento di rivolta, una ricerca costante di rinnovamento e di rischio, col successo che abbiamo ottenuto si è interrotto. Per quanto mi riguarda tutto è finito con Festen. Dogma è diventato una moda. Noi che l’abbiamo fondato siamo diventati ricchi, all’epoca non volevamo la paternità del film per evitare ogni vanità, ma i film che giravamo, anche se non avevano la nostra firma, erano molto personali. Oggi il Dogma non avrebbe più senso”.

Infine Vinterberg non si tira indietro sulla questione dei rifugiati: “Nei miei film non amo parlare di politica in maniera diretta, ma come uomo dico che in questo momento mi vergogno di essere danese, per quello che sta succedendo in questo momento nella mia nazione. Se si smettessero di umiliare le persone sarei contento”. 

La comune uscirà in Italia il 31 marzo con la BIM.

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