Suha Arraf: “Il mio film apolide, odiato dagli israeliani”

Villa Touma, alla Settimana della Critica, è un film senza patria, anche se le patrie che se lo contendono sono due: Israele e Palestina


VENEZIA – “Nazionalità”: nessuna. La prima particolarità di Villa Touma, alla Settimana della Critica a Venezia, è il suo essere apolide. Un film senza patria, anche se le patrie che se lo contendono sono due: Israele e Palestina. Girato dalla palestinese Suha Arraf con fondi israeliani (e non solo), Villa Touma ha fatto parlare di sé prima ancora di arrivare a Venezia, per via della decisione di Israele di ritirare i propri finanziamenti da un film ufficialmente presentato come “palestinese”. Ma la querelle sulla sua appartenenza geografica – dettaglio, in questo caso, non da poco – non è l’unico motivo di interesse per un dramma che esplora, attraverso la storia di tre sorelle volontariamente rinchiuse nella gabbia dorata della loro villa, un mondo molto poco conosciuto: quello dell’alta borghesia cristiana di Ramallah. Abbiamo intervistato l’autrice. 

Da dove arriva l’idea del soggetto?

Un giorno, quando ancora lavoravo come giornalista, sono andata a Ramallah per fare un reportage. Mi hanno consigliato di visitare il Ramallah Hotel, un piccolo albergo chiuso nel 1967, e quando ci sono entrata è stato come attivare una macchina del tempo. C’erano mobili antichi, candele dappertutto, silenzio. Mi ha accolto una signora dai grandi occhi verdi, che aveva gestito per tanto tempo l’albergo. La chiacchierata con lei è stata la scintilla che ha fatto partire il film.

Come sarà distribuito il film?
Non so se avrà una premiere a Ramallah. Non ce l’avrà a a Gaza, non è il momento giusto. Là hanno bisogno di cibo, di cose basilari, non di film. Vorrei farlo vedere in giro per piccoli villaggi e campi profughi, magari con una cinemobile, un furgone…

Israele rivuole indietro i soldi del suo film. Che ne pensa?
Ci sono un milione e mezzo di palestinesi che vivono in Israele, non c’è solo Gaza. E noi paghiamo le tasse a Israele, siamo il 20% della popolazione. Ho regolarmente fatto richiesta per accedere ai fondi, mi hanno selezionata, sono stata presa a Venezia e a Toronto. Solo che, dopo Gaza, l’immagine di Israele si è talmente rovinata che hanno pensato di usarmi per la loro propaganda. L’ho appreso dalla stampa, che avevo realizzato un film israeliano. Nessuno me l’aveva detto.

E lei come ha reagito?
Io dico: portatemi a processo. Dicono che ho rubato i soldi di Israele, ma vogliono solo usarmi. È un linciaggio mediatico. Tre volte al giorno finisco nelle news. Io dico: il contratto l’ho rispettato. Non c’è scritto da nessuna parte che il film è israeliano. Io sono palestinese e il film appartiene all’artista, non a uno Stato. Questo film è fatto con soldi israeliani ma anche tedeschi, americani e di privati. È una storia palestinese recitata da palestinesi, girata da una palestinese in lingua araba… ma stiamo scherzando?

Non poteva fare a meno dei soldi israeliani?
Ci ho provato. Ho girato per tutta l’Europa, e cosa mi rispondevano i produttori? Che la storia dei cristiani non era interessante, che non vedevano il “conflitto”. I checkpoint, gli spari, i cadaveri. Ho lottato cinque anni per realizzare il film.

Quello che è successo a Gaza come si riflette sulla sua vita?

Oggi ogni palestinese che vive in Israele è diventato un obiettivo politico. Non posso parlare arabo a Tel Aviv senza essere insultata, gli studenti vengono picchiati, 700 persone sono state arrestate per aver manifestato contro la guerra e tanti hanno perso il lavoro solo per aver pubblicato su Facebook le loro idee.

Ha paura?
Sì. Ho dovuto cambiare il numero di cellulare, chiudere la pagina Facebook. Mi dicevano “araba del cazzo, vattene a Gaza”. Dei gruppi fascisti hanno preso le mie foto su Facebook e le hanno usate per far girare una specie di taglia su di me. Ma per fortuna le cose stanno cambiando. Ci sono tre petizioni per difendere il mio diritto a chiamare il mio film palestinese. E una di queste è stata firmata anche da un centinaio di artisti israeliani.

Ha mai pensato di lasciare il suo paese?
No. Perché per me fare film nel mio paese è una lotta. Una lotta per l’identità, per i miei diritti, per la mia cittadinanza. E continuerò a farlo.    

01 Settembre 2014

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