Stonewall, un monumento alle lotte gay

Stonewall, il film di Roland Emmerich in uscita con Adler Entertainment, prende il nome dal locale gay “Stonewall Inn” che giugno del 1969 fu teatro dei primi scontri tra la comunità e la polizia


Gli omosessuali non possono essere assunti dalle strutture governative. Gli omosessuali non possono radunarsi in pubblico. Agli omosessuali non possono essere somministrati alcolici. L’omosessualità è una devianza che deve essere curata, come ogni malattia, dalla scienza e dalla medicina. Non stiamo parlando della bigotta Londra Vittoriana e di Oscar Wilde. Questi provvedimenti erano ancora in vigore a New York nell’estate del 1969, la stessa stagione che si concluse con l’epico raduno di Woodstock e che ci regalò i primi passi dell’uomo sulla Luna. Stonewall, il film in uscita presentato dalla Adler Entertainment, prende il nome dal locale gay “Stonewall Inn” che alla fine del giugno di quell’anno fu teatro dei primi scontri tra la comunità omosessuale e la polizia di New York. Un episodio centrale per l’autodeterminazione della cultura gay che segnò un vero e proprio momento spartiacque nella faticosa rivendicazione dei diritti civili. Un episodio che è sempre stato nel cuore del presidente Obama. Lo ricordò nel 2009 appena insediatosi alla Casa Bianca; lo celebra anche in queste ore dichiarando quella location tanto cara alla comunità gay un monumento nazionale. Donandogli – per intenderci – la stessa dignità della Statua della Libertà e del Gran Canyon.

Il film di Emmerich, interpretato da Jeremy Irvine Jonathan Rhys Meyers, ci racconta tutto ciò che precede questo momento rivoluzionario, attraverso il punto di vista di un personaggio immaginario che si trova catapultato nel cuore degli eventi e che intreccia la sua vicenda con le situazioni realmente accadute. Giovane di buona famiglia è arrivato a New York dalla provincia americana, per l’esattezza dal bigotto Indiana. La sua identità sessuale è emersa durante l’ultimo anno di liceo. E’ stata una iniziazione dolorosa: non solo gli ha messo contro l’ambiente ostile del Midwest ma gli ha persino negato ogni dialogo con la famiglia. Scelta quindi la strada dell’esilio, con la speranza anche di affermarsi come brillante studente alla Columbia, il ragazzo inizia a vivere come “homeless” in quello che alla fine degli anni ’70 era un vero e proprio ghetto della comunità gay: la zona di Christopher Park nel Greenwich Village.

Il regista tedesco, noto al grande pubblico per i suoi roboanti blockbuster millenaristi, stavolta sceglie nella messa in scena un taglio più intimo. La scena del quartiere ha infatti una dimensione molto teatrale (ricorda per esempio i musical Hair e Rent) che si sposa felicemente con questo romanzo di formazione dal taglio decisamente originale. Attraverso il nostro protagonista non solo esploriamo la storia delle diverse esperienze dei vari esponenti della comunità gay locale, ma anche gli intrecci pericolosi tra politica, forze dell’ordine e criminalità che sfoceranno nei moti di Stonewall, un momento di orgogliosa rivendicazione per chi dalla società era stato relegato ai margini senza alcuna dignità sociale. Il film rimarrà come una testimonianza importante di quel contesto storico anche perché, con grande precisione, cerca di fare luce sulle varie posizioni del movimento impegnate nella lotta in sostegno dei diritti civili. Si passa dalle posizioni più radicali (che porteranno alla stagione delle marce e dell’orgoglio) alle ipotesi più riformiste e “borghesi”.

Sono passati quasi cinquant’anni da quei fatti e Emmerich ha l’ambizione di valutarne i meriti e le conquiste, ma anche di riflettere sui limiti, per lo più imposti da una società diffidente, figlia di un’epoca controversa. Il film non risulta però solo calibrato e filologico nella sua scrittura. Il regista trasmette pienamente il gusto dell’epoca. La location ci riporta all’atmosfera delle copertine dei vinili più celebri del decennio e tutta la pellicola è attraversata da una luce gialla iperrealista che dona al paesaggio la vertigine dei paesaggi urbani di Hopper. Da segnalare – in chiusura- che nella direzione artistica del film è presente anche l’esperienza della nostra “bottega”. I costumi sono firmati dalla romana Simonetta Mariano che ormai negli anni può vantare una carriera cosmopolita sia nel cinema americano che in quello asiatico. L’ennesima storia del cineasta di talento in fuga dalla Vecchia Europa…  

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04 Maggio 2016

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