BERLINO – Per la fantascienza è un tema ricorrente. Nello spazio, ci si ritrova sempre nell’insopportabile compagnia di se stessi. Il vuoto siderale è come uno specchio. È il caso di Moon, Solaris, The martian e altri capolavori che sul tema hanno costruito un modello; schema generale a cui l’atteso nuovo film Netflix, presentato in anteprima alla Berlinale Special, si lega, adattando un racconto del 2017 dal titolo Spaceman of Bohemia.
Il lungometraggio diretto da Johan Renck (sulla piattaforma streaming dal 24 febbraio) tiene solo il primo pezzo del titolo, Spaceman, più attinente all’isolamento del suo protagonista. Al centro, infatti, un uomo, solo da sei mesi; perso nell’infinito nulla. L’astronauta Jakub, interpretato da un Adam Sandler che aggiunge questa performance alle più ricercate della sua filmografia, lì dove siede Punch-drunk love di Anderson e Diamanti grezzi dei Safdie, è in viaggio ai confini del sistema solare. La sua astronave punta dritto verso un’anomalia cosmica, dove potrebbe nascondersi il segreto dello spazio e del tempo. “L’inizio e la fine” celato in quelle nubi violacee potrebbe però riguardare proprio lui.
Jakub comunica ogni giorno con la terra. La sua testa è lì, a 500 milioni di chilometri, dove la moglie Lenka (Carey Mulligan), rimasta incinta prima della missione spaziale, ha deciso di non attenderlo più. I responsabili dell’operazione, guidati da Isabella Rossellini, decidono di non far avere all’uomo la registrazione in cui la moglie dichiara la propria intenzione di lasciarlo. Lui però, seppur ignaro, sa di essere partito con troppe questioni in sospeso e rimasto solo per troppo tempo, inizia a meditare sui numerosi errori commessi.
Entra qui in scena Hanus (doppiato da Paul Dano), una creatura spaziale – ancestrale quanto gli esseri ideati da Lovecraft – che accedendo ai ricordi dell’uomo, lo aiuta a scoprire dove e perché ha sbagliato nella propria vita. Hanus è un ragno gigantesco. Una figura metaforica che potrebbe essere, e quasi certamente è, frutto delle allucinazioni di cui Jakub inizia ad essere preda. Il ragno è un simbolo antico del destino, della morte e della morale, e Hanus è un po’ come il dio Anansi del folklore africano.
Dopo aver rifiutato il supporto psicologico offerto dalla terra, Jakub racconta se stesso alla creatura dello spazio, che punta su di lui otto grandissimi occhi. Scrutato dall’interno, le memorie di Jakub riaffiorano una ad una, e Johan Renck le mostra sempre nella forma confusa dei sogni. Ci immergiamo così nella psiche di quest’uomo, a cui restiamo attaccati da inizio a fine film. La prima inquadratura è dall’interno del casco spaziale: lo schermo si riempie degli occhi di Jakub, portali attraverso cui accederemo verso questa seduta psicanalistica spaziale.
Il ragno Hanus dice a Jakub ciò che lui non vuole ammettere. È saggio, spiritoso, anche un po’ eccessivo. Si rivolge a lui come “skinny human” e non ha mezze misure: “La tua solitudine è autoinflitta – tuona la creatura – mi rendi depresso”. L’astronauta è di origini ceche, ed è lui a nominare la creatura “Hanus”. Variante di “Johannes”, significa “Dio ha fatto grazia”. In questo specchio spaziale, dalle forme mistiche – è sì un aracnide grande come un cane, ma si esprime attraverso bocca e denti umani, e nasconde sotto le fauci due piccoli tentacoli – Jakub cerca una ragione, e forse il perdono. Nel frattempo, a terra, anche la moglie Lenka, che nel frattempo ignora ogni tentativo di contatto dall’astronave, si interroga sul passato e il futuro della loro relazione.
La fantascienza, come spesso capita, è una cornice: fornisce il frame dentro cui isolare o portare all’estremo l’essere umano, osservandolo nel suo agire in un ambiente nuovo. “È un film sci-fi, ma il suo cuore è nella storia d’amore tra Jakub e Lenka”, ha raccontato il regista Johan Renck. “Parla di isolamento e distanza, parla di amore irraggiungibile”. L’astronave, che Renck riprende seguendo l’assenza di direzioni dello spazio, con un vorticare lento ma continuo, “è una metafora perfetta”. Non c’è nessuno spazio o missione: “Questo è ovviamente un uomo la cui moglie lo ha lasciato e che sta seduto nel suo squallido piccolo appartamento cercando di capire cosa è successo” prosegue il regista.
Spaceman invita lo spettatore all’interpretazione, lasciando alle parole ininterrotte di Jakub e Hanus il ruolo di guida. L’aspetto fantascientifico che accende la vicenda passa presto in secondo piano. Allo stesso modo, lo spazio profondo e gli ambienti della navicella non sono particolarmente tratteggiati, e Renck inanella modi di riprendere già noti al genere. L’indagine del regista si esplica maggiormente in altri elementi, ad esempio nella scelta di accompagnare Spaceman con le musiche di Max Richter, compositore britannico molto noto per il suo stile minimalista e sospeso. È ad esempio il responsabile delle musiche di un altro recente film di sci-fi contemplativa, Ad astra di James Gray (lo “spaceman” era in quel caso Brad Pitt).
“Il suono è straordinario”, ha tenuto a sottolineare Adam Sandler, che ha condiviso con la stampa anche qualche problema vissuto sul set a causa del complicato sistema di fili con cui veniva fatto galleggiare per simulare l’assenza di gravità. “È stato però una grande esperienza, e spero davvero di apparire più spesso in film drammatici e riflessivi come Spaceman“.
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