Sollima: “Adagio, un gangster movie sentimentale”

In concorso a Venezia un noir apocalittico che chiude un ciclo nel cinema del regista romano. Nelle sale italiane dal 14 dicembre


VENEZIA – “Un gangster movie sentimentale”, così Stefano Sollima definisce il suo Adagio, in concorso a Venezia. Un noir apocalittico dove in una Roma funestata da incendi e black out elettrici si muovono, disperati e crepuscolari, quasi fossero dei vampiri, i vecchi gangster spietati ora in disarmo e apparentemente con le armi scariche.

Un plot classico nella letteratura nera, che il regista di Romanzo criminale La serie, di Acab, Suburra e Sicario, ha scritto insieme a Stefano Bises anche per tornare a girare nella sua Roma. Che brucia in lontananza come se Nerone fosse uscito dalla tomba mentre un ragazzo ingenuo viene incastrato da carabinieri deviati in un affare dove sono in ballo molti soldi e la reputazione di un ministro.

E allora inseguimenti, agguati, sangue, tradimenti e inattesi salvataggi che movimentano questa storia al maschile dove tutti sono padri, in un modo o nell’altro. “Un gangster movie, un noir – dice il 57enne regista – che ha al centro la paternità, tutte le forme possibili di amore filiale, di rapporto tra padri e figli biologici e non. E però tra vecchi banditi e nuovi criminali che si muovono solo per denaro, avanza un cuore puro, un ragazzo diverso, sensibile, come quelli delle nuove generazioni, che saranno pure svagati, fluidi ma sono la nostra speranza e io da padre ci credo davvero”.

Prodotto da The Apartment, Vision, Alterego (in collaborazione con Sky e Netflix) in sala il 14 dicembre con Vision Distribution (“ci crediamo molto, sarà uno dei film di Natale”, dice Massimiliano Orfei), ha un super cast con Pierfrancesco Favino, Toni Servillo, Valerio Mastandrea, Adriano Giannini, mentre il protagonista è il giovane debuttante Gianmarco Franchini, dal sicuro talento e dal bel viso pulito. Un poker di attori importanti che si sono prestati a una trasformazione fisica estrema, rendendosi più vecchi e in qualche caso deformi: Servillo è Dakota, un ex della Banda della Magliana che vive chiuso in casa, accudito dal figlio, con una qualche forma di demenza o follia; Mastandrea è Pol Niumann, quasi cieco e rintanato in una soffitta sotto la sopraelevata, Favino alias Er Cammello ha un cancro terminale, cranio pelato, pelle scorticata… Sono relitti che trovano la forza di un’ultima azione folle e disperata o di un’uscita di scena rocambolesca.

“Sono vecchie leggende della Roma criminale”, spiega Sollima. Che prosegue: “Nel racconto cerco sempre gli esseri umani, che sono pieni di sfumature, non credo in una divisione ferrea tra bene e male e non giudico i personaggi ma li amo a prescindere”.

Colpisce la rappresentazione di Roma come di una metropoli infernale e oscura, senza bellezza. “Volevo mostrare una città meno vista, come se fosse Los Angeles – dice il regista – una città come tante altre. Anche gli elementi distopici come gli incendi e il black out sono di estremo realismo, pensate agli incendi di questa estate o al traffico paralizzante. Credo che il film sia anche un atto d’amore verso la mia città”.

Sul rapporto padre-figlio, centrale nella costruzione del plot: “Per i gangster il denaro è l’unica cosa che conta e distrugge ogni tipo di relazione; invece, qui c’è un puro atto d’amore. È vero che ho provato a declinare tutte le forme possibili di amore paterno e filiale. C’è un figlio che si prende cura del padre come se si fossero ribaltati i ruoli, uno squalo che si occupa dei suoi figli come una mamma chioccia, un padre che voleva che il figlio fosse come lui e lo ha perso”.

Intervengono gli attori, tutti entusiasti del progetto. Per Adriano Giannini, che ha un ruolo tenebroso e ambiguo: “Stefano Sollima ha un immaginario molto limpido che si evolve insieme alle proposte degli attori. Tutti noi abbiamo fatto un lavoro sul corpo per entrare in queste inquadrature larghe, spesso in controluce, che ci obbligavano a creare deformità fisiche per stare meglio dentro all’immagine”. E aggiunge: “I codici della malavita e della polizia qui si somigliano”. Su questo Sollima si sofferma: “Non sono tutori dell’ordine, perché non c’è un bene e un male che si confrontano, c’è solo il male. Il cuore puro del racconto, però, sono i giovani, le nuove generazioni. Mentre i vecchi sono avidi e si muovono solo per il denaro pronti a schiacciare qualsiasi cosa, il ragazzo è un cuore puro che non si lascia contaminare”.

Afferma Favino: “Questo è il mio terzo film con Sollima. E’ una storia di cani randagi che vanno morire in solitudine in un angolo, una guerra vecchia che fa sentire l’adrenalina e il richiamo di un mondo ‘virile’. Condivido con Stefano un’idea di cinema e so che questo è un punto d’arrivo importante. Mi preoccupa però che sia la fine di un ciclo. Nei suoi film non c’è Dio, non c’è redenzione, non c’è un’idea preconcetta di bene e male, tutti sono falene impazzite, uomini nella polvere, dimenticati, che si arrabattano, che vengono riportati da una chiamata alle armi, con una scintilla di giovinezza. Ma almeno le colpe dei padri non ricadono sui figli e le nuove generazioni hanno la possibilità di essere diverse”.

Racconta Servillo: “Non avevo mai fatto un film con Stefano né un personaggio così, sono stato ammaliato dalla sceneggiatura. Il mio personaggio, Daytona, recita nella recita e va a sbattere contro il suo destino. I grandi direttori d’orchestra dicono che la musica manda i pensieri in tutte le direzioni, questo film così classico si porta dentro tanti contenuti che Sollima lascia all’interpretazione. Sono criminali che hanno vissuto dentro certe regole e non vogliono arrendersi mai. Uomini che fanno i conti con se stessi. La libertà scellerata avuta da giovani la mantengono fino all’ultimo”.

Si scorgono modelli cinematografici forti nello stile (il dop è Paolo Carnera). “Ma non ci sono citazioni – chiarisce Sollima – Ogni artista trasferisce la sua esperienza e il suo immaginario, chiaramente mi sono nutrito di cinema da quando ero piccolo. Ma quando mi fanno notare le similitudini, per esempio con I soliti sospetti, rispondo che sul set non ci avevo fatto caso, altrimenti avrei cambiato”.

E se Valerio Mastandrea preferisce non dare troppe spiegazioni sul suo personaggio (“un bagno di sangue”), Gianmarco Franchini racconta di aver sentito l’adrenalina di lavorare con attori tanto importanti. “Ma non mi hanno intimorito, anche da bambino quando giocavamo a guardia e ladri io facevo sempre il ladro. E poi sono un fan di Stefano da quando è uscita la serie Romanzo criminale”.

A Sollima tocca fare un confronto tra il sistema produttivo italiano e quello americano: “A Hollywood c’è una necessità industriale, si deve ragionare per un pubblico gigantesco, quindi si tende a semplificare il racconto, rendere meno sofisticati alcuni passaggi”.

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02 Settembre 2023

Venezia 80

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