‘Rosemary’s Baby’, quando Polanski reinventò il terrore

55 anni fa Rosemary's Baby del neo-90enne Roman Polanski ottenne un insperato successo di pubblico. Scopriamo le ragioni che rendono questo film un vero e proprio capolavoro del genere


“Entertainment Weekly” ha votato questo film come tra i dieci più spaventosi di tutti i tempi. Secondo lo scrittore Ira Levin dal cui romanzo fu tratto questo horror/thriller è “l’adattamento più fedele di un romanzo mai uscito da Hollywood”. E si dice fosse una delle pellicole preferite in assoluto di Stanley Kubrick.

IL “BABY” PRODIGIO DI POLANSKI

Stiamo parlando di Rosemary’s baby che 55 anni fa diede vita a un nuovo genere di terrore.

Sebbene il romanzo di Levin fosse un autentico best seller, sul successo dell’adattamento cinematografico non tanti ci avrebbero scommesso. Lo scetticismo era dovuto al fatto che il regista Roman Polanski (che il 18 agosto 2023 ha compiuto 90 anni) era tutt’altro che un nome nell’industria cinematografica americana, con all’attivo solo quattro lungometraggi (di cui tre girati in Europa) e di cui l’ultimo: Per favore, non mordermi sul collo! del 1967 aveva perso un bel po’ di soldi.

Tra l’altro la star prescelta – Mia Farrow – non aveva mai avuto successo al botteghino, nota soprattutto per il suo ruolo nella soap opera notturna della ABC-TV Peyton Place e per il suo breve matrimonio con Frank Sinatra, avvenuto quando lei aveva 21 anni e lui 50.

E  invece con un budget di 3,2 milioni di dollari, il film sfondò al botteghino e impose il suo regista all’attenzione internazionale, visto anche l’accoglienza molto favorevole al Festival di Cannes.

NON CI SI PUÒ FIDARE DI NESSUNO

Rosemary’s Baby era un film che scardinava i cliché e in modo sotterraneo rivoluzionava la scatola del genere in cui era rinchiuso: mentre altri film shock degli anni ’60 si svolgevano in luoghi isolati (Psycho, Gli uccelli, La notte dei morti viventi) o in vecchie case scricchiolanti (The Haunting, La casa degli Usher), Rosemary’s Baby incastrava l’orrore in ambienti urbani, nella quotidianità più borghese. E dopo gli assassinii di Martin Luther King Jr. e Robert Kennedy avvenuti quell’anno, il film colpì nel segno con il suo messaggio: non ci si può fidare di nessuno.

Il romanzo di Levin e il film di Polanski ebbero quindi il merito di aprire la strada a opere come L’esorcista, Il presagio, i romanzi di Stephen King e Anne Rice e anni dopo a Get Out di Jordan Peele.

Un film di atmosfere angoscianti che si avvolgono intorno allo spettatore con spire sempre più strette, capace di spaventare con eleganza e romanticismo. Però l’impalcatura di genere nasconde anche ben altro: una penetrante critica alla società capitalistica, incarnata dal lacerato tessuto sociale americano.

Polanski ancora la finzione al mondo reale grazie a riferimenti ben congegnati a prodotti familiari come lo Scarabeo, le moto Yamaha e la famosa copertina della rivista Time del 1966 che chiede “Dio è morto?”

Alla verosimiglianza così ben costruita, il cineasta polacco aggiunge una dose potente di ambiguità alla trama. Da ateo qual è sempre stato, il tema del satanismo e del grande Avversario di Dio come personificazione e incarnazione del Male gli risulta francamente indigeribile. Quindi ricorre al concetto di allucinazione.

Ecco cosa disse a questo proposito lo stesso Polansky: “Per ragioni di credibilità ho deciso che avrebbe dovuto esserci una scappatoia: la possibilità che le esperienze soprannaturali di Rosemary fossero frutto della sua immaginazione. L’intera storia, vista attraverso i suoi occhi, avrebbe potuto essere una catena di coincidenze solo superficialmente sinistre, un prodotto delle sue fantasie febbrili… Ecco perché un filo di deliberata ambiguità corre lungo tutto il film”.

LA FORZA DEI PERSONAGGI

Rosemary’s Baby di Roman Polanski è un film cupo e macabro, pieno di un senso di pericolo imminente, eppure condito di un sottile senso dell’umorismo. È un film inquietante, strisciante e pieno di cose che si muovono nella notte. Ma in fin dei conti la sua grandezza è non tanto nel plot quanto nella forza dei personaggi.

Polanski fornisce al pubblico una grande quantità di informazioni all’inizio della storia e quando siamo a metà strada ormai ci siamo fatti un’idea di quello che sta succedendo nell’appartamento accanto. Il finale funziona non perché è una sorpresa ma perché è assolutamente inevitabile. Noi siamo con Rosemary e i suoi tormenti. Empatizziamo con lei ma siamo impotenti di fronte a quello che sta per avvenire.

In definitiva i personaggi e lo storytelling trascendono l’intreccio. Nella maggior parte dei film horror, e in generale nei thriller incentrati sulla suspense di tradizione Hitchcockiana, i personaggi sono alla mercé della trama.  In questo film, invece, emergono come esseri umani che fanno davvero quello che fanno e soffrono delle conseguenze delle loro azioni o dell’intervento del destino.

CURIOSITÀ

Secondo Mia Farrow, le scene in cui Rosemary cammina nel traffico erano spontanee e genuine. Roman Polanski le avrebbe detto: “nessuno investe una donna incinta”. La scena è stata girata con successo, con la Farrow che camminava nel traffico reale e Polanski che la seguiva, manovrando la telecamera a mano, poiché era l’unico disposto a farlo.

Mia Farrow ha effettivamente mangiato fegato crudo per una scena del film, nonostante all’epoca fosse vegetariana.

Secondo la recente biografia di Jack Nicholson scritta da John Parker, Robert Evans propose Nicholson a Roman Polanski ma, dopo il loro incontro, il regista dichiarò che “nonostante il suo talento enorme, il suo aspetto un po’ sinistro lo escludeva”. I due avrebbero lavorato insieme qualche anno dopo in Chinatown (1974).

Altra possibilità era Robert Redford che, secondo Polanski, sarebbe stato perfetto per il ruolo di Guy Woodhouse, l’ambizioso marito di Rosemary. Sfortunatamente, tra la Paramount e Redford c’era una controversia contrattuale in corso che non permetteva accordi.  Alla fine Polanski scelse John Cassavetes, uno dei grandi nomi del cinema indipendente americano. “Devo dire che John Cassavetes non è stata la mia migliore esperienza”, ammise poi, con una dosa evidente di ironia, il regista. Le frizioni tra i due erano inevitabili. Cassavetes era un fiero sostenitore dell’improvvisazione, voleva farsi trascinare dall’emozione del momento. Polanski era un maniaco della precisione. Del dettaglio formalizzato. Secondo Mia Farrow, il regista si agitava anche se l’attore sollevava un bicchiere a pochi centimetri da dove immaginava che fosse.

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20 Agosto 2023

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