Roby Facchinetti: “ho fatto il musicista ispirato da un film”

Camillo è il nome di battesimo dell’artista dei Pooh, che si racconta nella sua vita più intima, sin dall’indimenticata infanzia, nel libro autobiografico 'Che spettacolo è la vita', per lui incredibile, quasi cinematografica a tratti, come ha raccontato, ospite del Bardolino Film Festival


BARDOLINO – “Fin da piccolo avevo capito di voler fare il musicista, volevo essere direttore d’orchestra: avevo visto un film in televisione, al bar, dove si andava a guardarla quando ancora nelle case non si possedevano. Non l’ho mai scordata la storia del bambino prodigio diventato direttore d’orchestra, con il film che finisce con il regalo per lui più grande, quello di dirigere un’orchestra sinfonica. C’era mia mamma seduta appena dietro di me, mi girai subito dopo la parola ‘Fine’ sullo schermo: ‘da grande voglio diventare come lui’, le dissi. Ci devono essere degli esempi da seguire: strada facendo abbiamo perso molti talenti perché non hanno avuto qualcuno, degli esempi veri, da seguire, che inevitabilmente ti svegliano quello che hai dentro. Io già studiavo musica ma quel bambino per me era un’ispirazione, un esempio”. Così Roby Facchinetti, al secolo Camillo, ci racconta questo episodio della sua infanzia, vita vissuta e restituita al pubblico nell’autobiografia Che spettacolo è la vita – La mia storia (Sperling & Kupfer), che ha pubblicato nella ricorrenza degli 80 anni (festeggiati il 1 maggio 2024).

La vita di Facchinetti, per il grande pubblico, fa rima con Pooh, e certamente quasi sessant’anni di carriera sono la vita, una vita che non raramente è stata anche costellata da episodi così incredibili da sembrare quelli di un film, soprattutto per un bambino nato modesto, nella Bergamo degli Anni ’40. Camillo – ospite del Bardolino Film Festival – non si risparmia nel raccontarsi, con lievità e intimità, in una narrazione in cui ricorrono, ripetute con affetto e gratitudine, le parole ‘infanzia’, ‘papà’ e ‘mamma’, protagonisti della sua vita.

“Lei non ci chiamava per nome la sera, ci contava. È stata una mamma straordinaria e se ho scoperto la musica lo devo a lei, che ha avuto un padre musicista, molto religioso tanto da aver composto una messa cantata. Lei ascoltava musica tutto il giorno, molto l’Opera ma anche quella pop. Ho scoperto lì che la musica avesse qualcosa di magico: io l’ascoltavo come qualcosa che mi volesse bene. Quell’emozione mi era entrata dentro e così ho cominciato a dire di voler studiare musica: non avevo ancora sette anni e lei mi accompagnò dal maestro Ravasio a imparare il primo strumento, la fisarmonica, presa a rate, 5mila Lire al mese; dopo 2 anni sono passato al pianoforte verticale, usato anche quello, acquistato da una contessa”.

Racconta che questo libro sia nato perché “al traguardo degli 80 anni volevo usare la voce per raccontare Camillo, la mia felicissima infanzia, la cartella di legno fatta da mio papà, i miei figli che sono i miei capolavori. La vita è la mia più preziosa melodia, diventata così autobiografia. Mio papà lavorava alla Dalmine, per garantire uno stipendio sicuro, e poi arrotondava facendo piccoli lavori per tutte le famiglie intorno, era un artigiano straordinario: lavorava 15/18 ore al giorno”. Ed è proprio parlando del signor Giuseppe, suo papà, che Camillo – a quattr’occhi – ci confessa di individuare lì, in quell’adorata cartella, il primo momento della sua esistenza a cui, se ripensa, non nasconde riconoscere un’aurea cinematografica, infatti “Camillo con la cartella di legno potrebbe essere davvero una scena di un film, con il suo papà falegname che gliela costruisce, bellissima: lui la costruì per la prima elementare e quel bambino, io, s’innamorò della cartella che poi gli venne tolta, mentre per lui era qualcosa di prezioso. Gli viene tolta, perché? Perché nella vita le regole vanno rispettate e io lì ho capito, per la prima volta, questo insegnamento e, se sono quello che sono, lo devo anche a questo”. L’amatissima cartella di Camillo è, infatti, anche uno dei racconti del libro e, forse non a caso, Facchinetti stesso, parlandone, inciampa in un lapsus e lo chiama “…film”.

Se il tema di BFF 2024 è “Ritrovarsi”, Roby Facchinetti, nella sua autobiografia, ritrova se stesso: il Roby adulto ritrova il Camillo bambino che, “non è mai andato via, da quando sono nato, nella zona di Astino, Bergamo: c’è un convento del Mille e lì sono nato, vivendo un’infanzia straordinaria, coltivando le radici che mi hanno formato. Primo di cinque figli, ogni mattina in bicicletta facevo cinque km per portare in famiglia il pane fresco, per cui ho sempre avuto il senso della responsabilità, che mi è servito tantissimo con i Pooh”.

Poi Roby è cresciuto, ha attraversato oltre mezzo secolo di Storia della Musica, una storia dove, a sua insaputa all’ora, al principio accarezza un altro pezzo di cinema, il Grand Hotel di Rimini, quello di Fellini, dove lui e la formazione de I Monelli vennero scritturati per un veglione di Capodanno, non passando inosservati a Paolo Bacilieri (Il Musichiere, programma tv) che, per l’estate, li chiamò nel suo locale a Riccione, La stalla, nel complesso dell’Hotel Mediterraneo. La storia dei Pooh era lì pronta a nascere, fu infatti dopo queste serate che con il gruppo con cui suonava, Pierfilippi e Les Copains, cominciò a essere chiamato fuori zona per qualche esibizione, fino a quella di Bologna, dove i Pooh proposero a Camillo di entrare nella formazione. Ed è qui che nasce “Roby” perché “avevo un compagno di scuola che si chiamava così, Roberto, e mi piaceva veramente tanto il nome, anche se adesso forse ne sceglierei un altro. Perché ‘Roby’? Perché Camillo pensava all’annuncio: ‘al pianoforte, Camillo!’, e no, non funzionava, mentre ‘Roby’ sì, ha funzionato”.

Nel racconto della vita di Roby Facchinetti ci sono anche il grande successo, Sanremo, e la canzone per la sua città ma – tra i tantissimi brani indimenticabili, scritti e cantati dai Pooh – Roby riconosce che ce ne sia uno, Parsifal, che ha sempre pensato potesse essere melodia portante per una colonna da film: “come compositore è chiaro che mi gratifichi molto il brano (nel disco ominimo): la prima parte è cantata, la seconda strumentale; alcune parti della suite di 12 minuti si sarebbero potute usare per una colonna sonora, perché è una melodia che evoca, emoziona, che come sottofondo di una scena d’amore o di Natura è un commento musicale capace di sottolineare benissimo delle immagini”.

È poi “dal ‘66 al ‘71 che noi Pooh abbiamo sognato di riuscire a far bene questo mestiere. Negli Anni’ 70 esce il nostro secondo album, Memorie, che non andò molto molto bene: in quel periodo c’erano milioni di band… La prima volta che abbiamo percepito di essere arrivati al grande pubblico è stato con Pensiero, un milione e 45 mila copie vendute. Il difficile cominciava ora: difendere una posizione conquistata”.

L’altra data scolpita nella storia dei Pooh è il 1990, quando, dopo diversi inviti rifiutati, decidono di partecipare a Sanremo, con una canzone intimista, cantautorale, Uomini soli. “Di Sanremo non ci piaceva il discorso della gara, la musica non è una corsa di cavalli, è una cosa seria, ma cambiare idea è essere intelligenti, si deve cambiare idea perché noi cambiamo. Il brano è stata la svolta vera: non era sanremese, ‘chiapparello’ come si diceva. Noi eravamo convinti di aver fatto un brano importante, forse per Sanremo un po’ coraggioso, ed eravamo certi di non vincere. Poi però vinciamo e per diritto avremmo dovuto fare l’Euro Festival, per cui serviva un inedito, e noi avevamo già fissato un tour italiano sicuro, appena dopo il Festival: abbiamo regalato il posto a Toto Cutugno, che lo vinse”.

Una e centomila e sono le storie dei Pooh, ma anche quelle di Roby e, tra le più recenti, quella del brano Rinascerò, Rinascerai, nata nei “giorni terribili, tragici” della pandemia, quelli in cui la sua Bergamo era tagliata dalle colonne dell’esercito sulle cui camionette si trasportavano le bare di chi era mancato sotto il tiro del virus. “C’era il lockdown, un silenzio che non faceva sentire nulla: l’unico rumore era quello delle ambulanze, un colpo al cuore ogni volta. Eravamo terrorizzati. Si parla di 14/15 mila persone che se ne sono andate. Io mi rifugiavo nella musica, in quella situazione andavo nello studio di casa e quasi inconsapevolmente è nata questa melodia. Questa melodia credo sia nata solo grazie alla profonda e autentica ispirazione: misuro la creatività dall’ispirazione più profonda. Ho capito subito avesse un’anima: chiamai Stefano (D’Orazio) e lui dopo pochissime ore mi mandò un testo, una cosa grande, emozionante, un matrimonio perfetto tra musica e testo. Volevo fare qualcosa per la mia città, devolvendo tutto all’ospedale cittadino ‘Giovanni XXIII’. Il miracolo nel miracolo è stato che dopo pochissime ore dalla messa in Rete siano arrivati messaggi da tutto il mondo, ecco la potenza della musica: è stato tradotto in quasi 20 lingue differenti”.

Camillo, infine, parlando da Pooh, ammette che “stiamo pensando al 60ennale del 2026, per qualcosa di unico e irripetibile”.

22 Giugno 2024

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