Pupi Avati: “Adesso sposo la tv”


TAORMINA – Pupi Avati al Festival di Taormina in collegamento (piuttosto altalenante) via skype scherza con i giornalisti: “Sembra una seduta spiritica”. Il regista è a Bologna, per un grave problema di salute del suo nipotino, e non potrà partecipare stasera al ricordo di Lucio Dalla al Teatro Antico insieme a Marco Alemanno, il compagno del musicista scomparso pochi mesi fa. “Mi avrebbe fatto piacere ricordare Lucio, non solo per parlare del suo ruolo nella poesia e nella musica italiana, ma soprattutto perché è stato un grande amico e compagno di strada. Abbiamo dormito tante notti insieme durante le tournée, in seguito è stato un collaboratore straordinario per le mie colonne sonore ed era un uomo generoso con tutti”.

Pupi parla di Un matrimonio, la serie in sei puntate di 100′ l’una, scritta con Claudio Piersanti e con suo figlio Tommaso Avati, che andrà in onda alla fine dell’anno su Raiuno. “Sono sei film, che hanno richiesto 36 settimane di riprese che si sono concluse venerdì scorso”, chiarisce orgoglioso. Ed è convinto che la strada della tv sia quella giusta per continuare a raccontare le sue storie in un cinema italiano in crisi di pubblico.

Sono molti anni che lei parla di questo progetto, a lungo rifiutato dai network televisivi.
Sì, Un matrimonio è stato preceduto da una lunghissima rincorsa, sono sei anni che cerco di metterlo in cantiere, prima con Mediaset, poi con Rai Fiction che finalmente siamo riusciti a convincere e che si è comportata con me in modo leale e senza imporre condizionamenti. Volevo raccontare una storia fondata profondamente sulla mia esperienza – proprio oggi celebro i 48 anni di matrimonio. Spesso parla di famiglia chi non la conosce o si è arreso al primo inciampo, non chi ha resistito a tutti gli ostacoli ed è rimasto vicino al consorte. Io mi sono ispirato al mio matrimonio e anche alrapporto tra i miei genitori, che si conobbero nel ’48 e si sposarono all’inizio degli anni ’50. Ebbero tre figli. In tal modo ho potuto raccontare anche il dopoguerra italiano e un pezzo di storia d’Italia.

Perché non farne un film per il cinema?
Un po’ per avere la possibilità di andare a fondo nei personaggi e nelle vicende con un racconto molto lungo e disteso. Ma soprattutto per la situazione del cinema italiano che ha perso il contatto con il pubblico. Ormai la qualità conta poco, i premi ai grandi festival, come Cannes, Berlino e Venezia, che un tempo potevano cambiare la storia di un regista, sono ininfluenti. Qui a Bologna tutti i cinema di città sono chiusi, mentre i negozi di telefonini proliferano. E allora perché non riconsiderare la televisione?

 

Quali sono le cause di questo scollamento dal pubblico, oltre alla chiusura delle sale di città e quindi alla mutazione generazionale del pubblico?
In questi ultimi tempi anche i miei figli e i miei nipoti, che erano spettatori cinematografici attentissimi, hanno preso a vedere film attraverso modi scorretti, li scaricano illegalmente e non mi ascoltano quando dico che non è corretto, c’è un sentimento di impunità nei confronti del cinema. I giovani preferiscono andare nei locali piuttosto che al cinema. Per quale motivo non lo so.

Ci parla del cast di “Un matrimonio”?
Micaela Ramazzotti è mia madre e Flavio Parenti mio padre, li vediamo giovani e poi maturi e settantenni. Christian De Sica è mio nonno paterno, un uomo molto noto nella Bologna degli anni ’20-30, era un antiquario con la passione dei cavalli da corsa, cosa che lo portò al fallimento. Andava tutte le sere a salutare la Madonnina del Paradiso e il giorno in cui fallì, tornò a casa e disse che aveva chiesto alla Madonnina di morire. Mangiò le tagliatelle al ragù, come faceva sempre, andò a letto, e quella notte morì davvero. Per lui fu una bella morte, ma lasciò mia nonna (Mariella Valentini) e i suoi figli, cioè mio padre e le sue sorelle in un mare di guai. Mio padre, che era bellissimo e non faceva niente se non corteggiare le ragazze, si trovò all’improvviso ad avere delle grosse responsabilità. In negozio lavorava una dattilografa, una ragazza semplice, figlia di un operaio socialista (Andrea Roncato) e da sempre innamorata del figlio del padrone. Lei gli fu molto vicina e finirono per innamorarsi. Così mio padre risalì la china e diventò un collezionista di arte. Nel cast ci sono anche Valeria Fabrizi e Katia Ricciarelli, in tutto sono 259 ruoli.

La sua famiglia come reagisce al fatto di essere messa in scena in ogni dettaglio?
Sono anni e anni che racconto cose che riguardano la mia vicenda personale e umana, sono rassegnati e un po’ lo sopportano. Solo mia madre non si è mai voluta riconoscere nei miei film, sosteneva che sminuissi il suo livello sociale e culturale.

Continuerà a fare televisione o tornerà al cinema?
Spero che sia una scelta definitiva, perché voglio avere ancora l’opportunità di scrivere racconti lunghi. Mi sento più tranquillo con la mia coscienza quando posso dire tutto di un personaggio. E poi anche Rossellini nell’ultima parte della sua carriera si dedicò soprattutto alla televisione con una valenza didattica.

Qual è il suo prossimo progetto?
È estremamente ambizioso e vorrei affrontarlo finché ne ho l’energia. È una storia già tentata da altri senza successo, ma io credo di aver trovato l’approccio giusto, senza rinunciare al mio modo di raccontare e senza tradire l’oggetto che è davvero qualcosa di grande.

27 Giugno 2012

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