Pietro Scalia: “a Cinecittà per conoscere Fellini, abbiamo mangiato cacio e pepe al Teatro 5”

L’intervista con il montatore, premio Oscar a 31 anni per JFK, a Locarno insignito del Vision Award Ticinomoda; per Ferrari di Mann – alla Mostra di Venezia - ha curato l’editing (e i pranzi italiani)


LOCARNO – Un cognome il suo che suona la melodia della Sicilia – terra natale, dei suoi genitori anzitutto – di cui ha il rammarico di non parlare il dialetto, ma la soddisfazione di capirlo: lui, Pietro Scalia, venuto al mondo a Catania 63 anni fa, è un orgoglio italiano a Hollywood, dove ha cominciato a lavorare come assistant editor nell’87 per Wall Street di Oliver Stone e dove, a 31 anni, ha conquistato il suo primo Oscar per JFK – Un caso ancora aperto (il secondo è arrivato nel 2022 per Black Hawk Down; oltre alle nomination per Will Hunting – Genio ribelle Il gladiatore).

Pietro Scalia è ospite d’onore a Locarno, che l’ha tributato con il Vision Award Ticinomoda, premio dedicato a chi abbia ampliato gli orizzonti dell’immaginario cinematografico.

Scalia – a cui parlando dell’Italia e del cinema italiano brillano letteralmente gli occhi, sguardo buono, modesto nonostante la statura artistica, quanto vivissimo dietro le lenti degli occhiali da vista – al di là delle origini, è molto vicino al nostro Paese anche perché, tra meno di un mese, alla Mostra di Venezia, sarà presentato Ferrari di Michael Mann, di cui lui ha curato il montaggio.

Pietro, per lei, italiano che lavora a Hollywood, dire ‘Cinecittà’ rappresenta qualcosa?

Certo, ha un significato! Cinecittà era il desiderio di andare a fare cinema in Italia, di far parte della grande cultura italiana del cinema, di cui da giovane, quando ancora vivevo in Svizzera, guardavo i film. L’immaginazione portava all’idea del Centro Sperimentale, da frequentare per studiare cinema, per pooooooooi, un giorno, forse aver la possibilità di lavorare a Cinecittà. Invece, sono andato in America, però, dopo il primo Oscar, sono stato invitato a Roma, era l’estate del ’92, e avevo un amico, Paolo, direttore della Saatchi & Saatchi, che mi chiese: ‘ti farebbe piacere incontrare Fellini?’, nel periodo in cui Fellini faceva pubblicità. Io rispondo: ‘ovviamente!’, e quindi lui mi porta a Cinecittà. Ero emozionatissimo, cioè… Fellini è Dio! Mi ricordo: era pomeriggio, Fellini usciva dalle riprese, eravamo fuori dal suo Teatro 5, cioè… a quel punto sei davvero ‘a Cinecittà!’. Paolo mi presenta e lui mi dice: ‘grazie per quello che hai detto’, insomma si ricordava di alcune interviste, fatte da me dopo aver vinto l’Oscar, in cui mi chiedevano se mi sarebbe piaciuto lavorare in Italia, e io rispondevo che ‘ovviamente sì’, era un grande desiderio, ma ‘con chi?’, e io avevo detto: ‘Fellini! Se mi chiamasse Fellini anche gratis!’. Poi, la cosa bella, è stata quando mi chiese: ‘ti va di restare?’; era un momento di pausa, con il suo gruppo di lavoro, tra cui il suo direttore della fotografia, Giuseppe Rotunno, e così mi invitò: ‘andiamo a sederci là’ e lì hanno portato dei tavoli, del cibo, tutti gli assistenti e gli attori lo chiamavano ‘maestro, maestro’; davvero, quello è stato il mio ‘momento-Fellini’ assoluto, stavo mangiando cacio e pepe con Fellini a Cinecittà! Un sogno esaudito.

E adesso, in questo momento della sua carriera, verrebbe a lavorare per il cinema italiano?

Sì.

C’è un autore italiano per cui verrebbe in particolare?

Più di uno: ho conosciuto Paolo Sorrentino, che però lavora sempre con la sua equipe, e lo capisco; Matteo Garrone è stupendo, sto aspettando di poter vedere il suo ultimo film, Io capitano; un po’, c’è il fatto che io sia sempre molto impegnato, ma il desiderio è altrettanto. Penso anche a Bellocchio o a Nanni Moretti, ma – in generale – riconosco che spesso siano film intimi e gli autori in Italia tendano a lavorare con lo stesso gruppo di persone.

Da un ‘marchio’ italiano, Cinecittà appunto, a un altro, ‘Ferrari’: personalmente, prima che Michael Mann facesse il film, Ferrari per lei significava già qualcosa? Non so, una passione di bambino o sportiva?

Ferrari è sempre stato un’icona enorme, non soltanto per l’Italia. Quando vivevo ancora in Svizzera, avevo un amico italiano, Fabrizio: suo papà era milanese ma era maestro di scuola guida in Svizzera, e a casa loro era sempre pieno di macchine, di cui erano appassionati; con lui e suo padre andavamo sempre al Salone dell’Automobile di Ginevra e vedere le Ferrari era incredibile, una passione. Poi, c’è stata l’epoca di Niki Lauda con Ferrari nella Formula Uno, che seguo ancora, assolutamente. Ferrari è sempre stato un simbolo di eccellenza e Michael ha amato sempre il personaggio: ci ha impiegato tanti anni ma alla fine è riuscito a fare il film.

Per il montaggio di una storia tutta italiana, quella di Ferrari appunto, il fatto che Mann abbia scelto proprio un italiano – al di là che lei sia un maestro – pensa possa essere perché, nell’italianità, ci abbia visto un valore aggiunto?

Non lo so… lui mi aveva offerto altri film in passato, ma ho sempre dovuto dire di no per altri impegni: non so davvero perché mi abbia scelto, sì forse per entrambe le cose che ha detto lei. Però, siccome lui è molto preciso sul lavoro, e io ho ovviamente una parte di cultura italiana, ma anche l’orecchio sensibile alla lingua, forse… Però non gli ho mai chiesto perché proprio io.

Per Ferrari, c’è un aneddoto, un dietro le quinte, un suggerimento dato da lei a Mann, un confronto con lui, qualcosa insomma che porta con sé?

Michael Mann è una persona che dà molti appunti sul come affrontare il progetto, ma mi ha anche dato la libertà di montare, tanto che poi era quasi sorpreso e mi ha detto: ‘non ti ho detto molto, però è ben fatto, mi piace’, che… insomma lui è deciso su questo aspetto!; però, quando il sabato veniva a guardare il montato, io andavo al mercato, compravo i formaggi, le mozzarelle, il prosciutto, gli preparavo da mangiare e lui restava quasi stupito, così succedeva chiamasse anche la moglie, la facesse portare lì dall’assistente, e io allora preparavo la pasta, offrivo la pizza, e lì mi ha detto: ‘adesso capisco perché ti piaccia lavorare il sabato!’. Per noi italiani il cibo è espressione d’amore.

E in generale, quando le viene proposto un film la cui anima è italiana, artisticamente, per il suo mestiere, c’è qualcosa di natale che le scatta dentro?

Per me, il cinema italiano è sempre un riferimento per il mio mestiere, e significa anche le mie radici. Per esempio, conosco e amo Roma perché: quanti film ho visto girati lì? Ma è così anche per i film di Ermanno Olmi e quindi una certa Lombardia e c’entra inoltre il fatto che mi piaccia la lingua, i suoni: purtroppo non parlo il siciliano, però capisco il dialetto, come anche quello pugliese o il napoletano, e anche il bresciano, forse perché qui in Svizzera sono stato educato da suore bresciane e bergamasche, insomma ‘ho l’orecchio’; comunque, noi italiani siamo sì più istintivi e quindi appassionati ma abbiamo anche il temperamento di esprimere un punto di vista, di voler migliorare, di essere tenaci nel carattere, e allo stesso tempo la mia cultura svizzera mi ha insegnato a essere preciso, specifico.

Lei è un maestro del montaggio, ma c’è qualcuno che considera tale per il suo mestiere o d’ispirazione?

Io non avevo l’idea di fare il montatore, ho scoperto l’arte del montaggio nel fare: ho imparato moltissimo da solo, è come se mi fosse entrato dentro il sangue, non saprei dire, è stato qualcosa di istintivo, ero capace con le mani, però ho stimato moltissimo il lavoro di Thelma Schumacher con Scorsese o di Walter Murch con Coppola, ma c’erano tante montatrici donne in America, che hanno fatto un grande lavoro, come Anne Coates – Miglior Montaggio nel ‘63 per Lawrence d’Arabia, insomma donne che hanno portato avanti questo mestiere e io le ho ammirate moltissimo. Da Thelma, o anche da Michael Cann, incontrati negli studi di montaggio, pur essendo io più piccolo di loro, ho ricevuto parole di stima, e questo loro riconoscimento, del far parte di quest’arte che per me era quasi sconosciuta, mi ha dato moltissimo.

Venendo all’attualità: a Hollywood, si sa, c’è lo sciopero degli autori in corso e anche il timore dell’AI che incombe, ma entrando nello specifico delle funzioni delle stessa, quali pensa aiuteranno e quali no il mestiere del montaggio?

In questo momento non so dire che effetto potrà avere sul mio mestiere, so che l’AI è basata sul linguaggio, sulla ripetizione delle voci o sulla riproducibilità dei volti: non so se per l’AI il mio lavoro sia in pericolo, se l’AI possa essere capace di montare, sicuramente sarà usata come uno strumento di supporto; mi chiedo: ‘io potrei ideare un’app per insegnare all’AI come organizzare il materiale?’; certo, in caso toglierebbe il lavoro ai miei assistenti e, in generale, sarà critica per molte persone, che potrebbero perdere il lavoro, il metodo potrebbe cambiare. Però non so davvero dare una risposta assoluta, perché il montaggio non è solo un mestiere meccanico, ma comporta la partecipazione personale, è la tua umanità che sceglie, guidata dal sentimento.

Sempre restando a Hollywood, in questo periodo, come viene guardato e percepito il cinema italiano? Cosa le pare possa interessare al cinema americano del nostro?

C’è sempre un effetto nostalgia e un po’ ‘cartolina’, quando dall’America vengono fatti film sull’Italia, tipo My House in Umbria; però il successo di cose come la serie Gomorra o L’amica geniale, ma anche quello di White Lotus, dimostra un interesse per l’Italia, che è davvero desiderata e c’è riconoscimento per il contributo del cinema italiano; l’opportunità per attori e registi italiani di lavorare a Hollywood c’è stata e c’è ma lo sanno anche loro che, se riesci a entrare, è – come si dice in inglese – una spada dalla doppia lama.

di Nicole Bianchi

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