Nazismo, zona grigia della moralità umana e banalità del male

'Le assaggiatrici' e 'Berlino Estate ’42' sono due titoli che a fine marzo 2025 riportano sul grande schermo il tema del Nazismo: da 'Il portiere di notte' a 'La scelta di Sophie', da Gillo Pontecorvo a Steven Spielberg, così gli autori hanno messo in scena il totalitarismo


Dalla satira alla ricostruzione storica, mettendo in luce il pericolo del totalitarismo e il peso della memoria, il cinema ha affrontato con ricorrenza il tema del Nazismo: Le assaggiatrici di Silvio Soldini (uscita 27 marzo 2025) e Berlino Estate ’42 di Andreas Dresen (uscita 20 marzo 2025) sono due titoli che a fine mese corrente riportano sul grande schermo il soggetto che, da Liliana Cavani a Gillo Pontecorvo a Steven Spielberg, è stato uno spaccato della Storia mondiale che ha scritto anche importanti passaggi della Storia del cinema.

Un dramma psicologico su una relazione sadomasochistica, questa l’estrema essenza narrativa de Il portiere di notte (1974): quello di Liliana Cavani è sempre stato commentato e percepito come un film controverso, che certamente esplora il legame tra vittima e carnefice, mettendo in scena la relazione tra un’ex deportata ebrea (Charlotte Rampling) e un ex ufficiale delle SS (Dirk Bogarde). Il film sfida la tradizionale rappresentazione del Nazismo come pura malvagità esterna e mostra come il trauma possa generare dinamiche psicologiche complesse e disturbanti. La fotografia cupa e la regia di Cavani costruiscono un’atmosfera di tensione costante, trasformando Vienna in un luogo in cui il passato nazista continua a perseguitare i protagonisti. La regista affronta il Nazismo non attraverso la cronaca storica ma esplorando le sue ripercussioni emotive e il rapporto perverso tra vittima e carnefice: la visione di Cavani si concentra sulla memoria del trauma e su come il potere possa essere interiorizzato anche dopo la fine di un regime; con una visione provocatoria, rifiuta di rappresentare la vittima come innocente e il carnefice come puro male, mettendo in scena una dinamica ambigua che sfida la morale tradizionale. Non c’è Hitler in prima persona in questa storia ma Dirk Bogarde è Max, ex ufficiale delle SS: l’attore offre un’interpretazione sottile e inquietante, costruendo un ex nazista tormentato e ambiguo; il suo Max non è un sadico urlante, ma un uomo che conserva il potere in modo subdolo, attraverso il controllo psicologico sulla protagonista. L’attore riesce a trasmettere un senso di freddezza e fragilità allo stesso tempo, evitando stereotipi e rendendo il suo personaggio più disturbante proprio nella sua apparente normalità. Il film fu presentato al Festival di Berlino accolto con un forte impatto critico, diventando un cult del cinema d’autore.

Mentre per David Wnendt, Adolf Hitler si risveglia nella Germania moderna e diventa una celebrità con Lui è tornato di (2015), basato sull’omonimo bestseller di Timur Vermes e da cui poi il remake italiano Sono tornato di Luca Miniero. Il film tedesco, mescolando fiction e riprese documentaristiche, racconta la ricomparsa del Führer nella Germania di oggi. Con un’ironia amara mostra come il dittatore venga inizialmente scambiato per un comico e poi accolto come fenomeno mediatico: l’uso della satira si rivela particolarmente efficace nel denunciare il pericolo di sottovalutare certi discorsi politici. Il film s’interroga sulle dinamiche del populismo, mostrando come un linguaggio autoritario possa facilmente riemergere in una società disillusa. Wnendt costruisce il film come un esperimento sociale, mostrando la reazione della Germania moderna alla figura di Hitler, rivelando come il populismo e la manipolazione mediatica possano facilmente riabilitare idee pericolose. Con uno stile documentaristico e un umorismo tagliente, il regista evidenzia il potere della propaganda anche in un’epoca che si presume più consapevole. Oliver Masucci interpreta un Hitler che, pur mantenendo gli atteggiamenti e la retorica storica, viene reso quasi simpatico agli occhi della gente, una scelta voluta, per sottolinearne il fascino perverso: il suo modo di parlare e osservare la società moderna con ironia lo rende un personaggio credibile e spaventoso allo stesso tempo; l’attore s’immerge nel ruolo con un realismo che rende il film ancor più inquietante, soprattutto nelle scene in cui interagisce con persone reali.

La scelta di Sophie (1982) racconta, invece, il trauma di una sopravvissuta ad Auschwitz che porta con sé un segreto devastante: Alan J. Pakula dirige un dramma psicologico che mostra le conseguenze emotive della sopravvivenza. Meryl Streep offre una delle migliori interpretazioni della sua carriera, incarnando il trauma di una donna costretta dai nazisti a scegliere quale dei suoi figli salvare. Il film non presenta Hitler come personaggio, ma Streep interpreta il trauma della sua ideologia con una profondità straordinaria: la sua Sophie incarna le cicatrici psicologiche lasciate dal regime e l’attrice la restituisce una figura complessa, con emozioni stratificate che vanno dalla seduzione alla disperazione. Il momento chiave della “scelta” è uno dei più potenti del cinema, grazie alla capacità dell’interprete di trasmettere terrore puro senza bisogno di grandi gesti. Streep si è preparata con estrema dedizione, imparando il polacco e recitando con un accento tedesco-polacco, tono che conferisce autenticità al personaggio, riuscendo a trasmettere un dolore profondo senza mai ricorrere a un’eccessiva teatralità. L’Academy riconobbe il valore della sua interpretazione assegnandole l’Oscar per la Miglior Attrice Protagonista e la performance di Streep è ancora oggi un punto di riferimento per la capacità di incarnare il trauma psicologico e il senso di colpa del sopravvissuto. Il film esplora, inoltre, il peso della memoria, dimostrando come la guerra possa lasciare ferite insanabili. La regia enfatizza il senso di colpa e la distruzione emotiva della protagonista, trasformando la narrazione in una riflessione sul peso insopportabile delle scelte imposte dalla barbarie nazista.

Con L’onda (2008) si apre lo sguardo su quanto un esperimento sociale in una scuola possa rendere facile ricreare una dittatura in tempi moderni: il film di Dennis Gansel è basato su un esperimento realmente avvenuto in una scuola americana e sul grande schermo si racconta come un professore riesca involontariamente a creare un movimento autoritario tra i suoi allievi. Il film dimostra quanto sia facile manipolare le persone attraverso il carisma e la disciplina, portando a una riflessione sulla vulnerabilità delle democrazie. Il finale scioccante evidenzia l’attualità della lezione storica: il totalitarismo non è un fenomeno relegato al passato, ma una possibilità latente in ogni società. Gansel vuole dimostrare che certi regimi autoritari non siano fenomeni lontani, ma una tentazione sempre attuale nelle dinamiche sociali. Il suo punto di vista è quello dell’educatore, che mostra come un sistema autoritario possa nascere spontaneamente in qualsiasi comunità. La regia è dinamica e immersiva, portando lo spettatore dentro il processo di radicalizzazione degli studenti, fino alle estreme conseguenze. Jürgen Vogel (Rainer Wenger, il professore) non interpreta direttamente Hitler, ma il suo personaggio rappresenta come un leader carismatico possa innescare dinamiche dittatoriali: la prova attoriale è affascinante e inquietante; parte come un insegnante amichevole e idealista, ma gradualmente assume toni sempre più autoritari, mostrando quanto il potere possa corrompere anche chi non ha intenzioni malvagie, mostrando così il fascino del totalitarismo in modo indiretto.

Gillo Pontecorvo con Kapò (1960) affronta un dramma ambientato in un campo di concentramento nazista. Kapò segue la storia di una giovane ebrea deportata che, per sopravvivere, diventa una collaborazionista nel campo di sterminio. Il film si concentra sulla zona grigia della moralità umana, mostrando come la disperazione possa spingere a scelte estreme. Pontecorvo affronta il tema con una visione politica e morale rigorosa, rifiutando ogni sentimentalismo, il suo film è incentrato sulla trasformazione della protagonista e sul compromesso morale necessario per la sopravvivenza. Pur essendo stato criticato per certe scelte estetiche, il regista cerca di raccontare la violenza del lager senza spettacolarizzarla, ma sottolineandone il meccanismo di disumanizzazione. Susan Strasberg (Edith/Nicole, prigioniera ebrea diventata kapò) interpreta una donna che interiorizza i meccanismi di potere del sistema nazista e la sua trasformazione da vittima a collaborazionista è resa in modo graduale, attraverso sguardi e piccoli gesti che mostrano il conflitto interiore. L’attrice evita ogni eccesso drammatico, rendendo il personaggio ancora più credibile e tragico. Il titolo è noto anche per la critica di Jacques Rivette alla celebre inquadratura della morte della protagonista, che secondo lui estetizzava il dolore in modo inaccettabile. Pontecorvo, invece, difese la sua scelta stilistica come un modo per dare dignità alla tragedia. Kapò ricevette la Nomination agli Oscar per Miglior Film Straniero e Pontecorvo vinse, più avanti, il Leone d’Oro a Venezia con La battaglia di Algeri (1966), seppur Kapò sia sempre rimasto una delle sue opere più discusse.

Basato sulla storia vera di Oskar Schindler, imprenditore tedesco che salvò centinaia di ebrei dallo sterminio, ecco la Schindler’s List (1993, 7 Premi Oscar) raccontata da Steven Spielberg. Il film combina realismo documentaristico e narrazione emotiva, con il regista americano che ricostruisce la storia dell’essere umano che salvò oltre mille ebrei dalla deportazione. Il bianco e nero della fotografia accentua la dimensione storica, mentre la famosa scena della bambina dal cappotto rosso rappresenta uno dei momenti più iconici del cinema sulla Shoah: Spielberg adotta un linguaggio cinematografico vicino al documentario per dare un senso di autenticità alla narrazione e il suo punto di vista si concentra sull’eroismo di Schindler, trasformandolo in un simbolo di speranza in mezzo all’orrore. Spielberg bilancia l’orrore con una storia di redenzione, rendendo la vicenda accessibile a un vasto pubblico, ma anche oggetto di critiche per una possibile semplificazione della tragedia. Ralph Fiennes (Amon Göth, ufficiale delle SS) dà vita a una delle figure più spaventose del cinema nazista: il suo personaggio è una combinazione di brutalità casuale e freddo razionalismo. L’attore riesce a rendere Göth non solo un sadico, ma un uomo che uccide con la stessa naturalezza con cui si veste al mattino: l’interpretazione è disturbante proprio perché evita il ritratto di un “mostro da fumetto”, rendendolo invece spaventosamente realistico. Il personaggio, basato su una figura reale, è uno degli esempi più spaventosi della “banalità del male”: non è solo un sadico che uccide a sangue freddo, ma un uomo che esercita il potere in modo arbitrario e crudele, come se la vita delle persone valesse nulla. Fiennes costruisce Göth con una combinazione di fascino e brutalità. In alcune scene sembra quasi annoiato dalla violenza che esercita, mentre in altre esplode in atti di sadismo improvviso, come quando spara ai prigionieri dal balcone della sua villa. Uno degli aspetti più disturbanti della sua interpretazione è la totale assenza di rimorso: il personaggio si convince di essere nel giusto, incarnando perfettamente la mentalità nazista.

Infine, Oliver Hirschbiegel con La caduta – Gli ultimi giorni di Hitler (2004) fa un ritratto degli ultimi giorni di Hitler nel bunker di Berlino, uno dei ritratti più realistici mai portati sullo schermo, interpretato magistralmente da Bruno Ganz. Il film evita ogni tentazione di demonizzazione assoluta e presenta il Führer come un uomo ormai al limite, immerso nella paranoia e nella rassegnazione. Questo approccio ha suscitato dibattiti: alcuni lo hanno visto come un tentativo di umanizzare, mentre altri lo hanno interpretato come un’efficace decostruzione della sua figura mitizzata. L’ambientazione claustrofobica e l’attenzione ai dettagli storici contribuiscono a rendere il film un documento visivo quasi da reportage. Hirschbiegel vuole demolire la figura mitizzata di Hitler, mostrandolo come un uomo sempre più isolato, paranoico e debole: il suo intento è creare un ritratto realistico che renda il dittatore meno un mostro inaccessibile e più un essere umano fallibile, responsabile di scelte disastrose. La regia punta sulla tensione psicologica, sottolineando la decadenza del Reich più che la sua forza, mentre l’interpretazione di Ganz (Hitler) è considerata una delle più fedeli e intense mai realizzate. L’attore studia minuziosamente i tic e la gestualità di Hitler, trasformandolo in un uomo distrutto dal senso di onnipotenza e dalla disperazione: è ipnotico, alterna esplosioni di rabbia incontrollata a momenti di silenziosa rassegnazione, rendendo il personaggio umano senza mai giustificarlo. La sua scena più famosa, in cui Hitler ha un crollo nel bunker, è diventata iconica, anche attraverso numerose parodie sul web.

autore
18 Marzo 2025

Focus

Focus

Steven Soderbergh: il camaleonte del cinema contemporaneo

Arriva in sala il 30 aprile Black Bag - Doppio Gioco, il nuovo film di un regista che, dopo trent'anni di carriera, continua a reinventarsi

Focus

I Papi nel cinema, da ‘Conclave’ allo sguardo degli autori

Nel giorno dei funerali del Santo Padre Francesco, ripercorriamo i film e le serie che hanno provato a rispondere alla domanda: chi è davvero colui che indossa la veste bianca?

Focus

Gesù secondo il Cinema

Da Zeffirelli a Scorsese, da Pasolini a Mel Gibson, passando per Barabba e Jesus Christ Superstar sul grande schermo la figura del figlio di Dio è sempre attuale e mai uguale a se stessa, fino al recente fenomeno di The Chosen: L’ultima Cena

Focus

Caccia all’uovo (nascosto): gli Easter Eggs cinematografici in grandi classici

Da R2-D2 e C-3PO trasformati in geroglifici in Indiana Jones al tappeto di Shining in Toy Story: alla scoperta di alcuni dei più bei Easter Eggs della storia del cinema


Ultimi aggiornamenti