Peter Greenaway: “Il cinema è morto!”

Abbiamo intervistato a Ginevra il grande regista inglese, omaggiato con un premio alla carriera


GINEVRA – Ogni anno, il Geneva International Film Festival (GIFF) omaggia una personalità della Settima Arte con il premio Film & Beyond, un riconoscimento alla carriera. Per l’edizione 2018 tale onore spetta a Peter Greenaway, figura singolare del cinema europeo: inglese di nascita, residente ad Amsterdam, arrivato alla regia dopo una formazione iniziale come pittore. L’abbiamo incontrato il 6 novembre, la sera dopo la consegna del premio.

Il festival le ha reso omaggio con un premio che si chiama Film & Beyond. Pensa che sia una descrizione corretta della sua carriera?

Dipende. Lei come interpreta quell’appellativo?

Oltre ad essere un cineasta, lei è anche pittore. Quindi il suo percorso artistico va oltre il cinema.

Giusto. È un grande onore ricevere questo premio, ma per me non è particolarmente insolito, perché il cinema di per sé è un’arte che mette insieme diverse discipline. Inoltre, e non lo dico per vantarmi, è già l’ottava volta che ricevo un premio simile.

All’interno dell’omaggio è stato proiettato I misteri del giardino di Compton House (1982). Che ricordi ha di quel film?

È il mio biglietto da visita, per così dire. Avevo già fatto una ventina di film, per lo più cortometraggi molto sperimentali. Questo è, in parte, una riflessione sui gialli alla Agatha Christie. In alcuni mercati internazionali è uscito con dei titoli più “di genere” che non c’entrano nulla con l’originale, The Draughtsman’s Contract (Il contratto del disegnatore).

Nei paesi francofoni si chiama Omicidio in un giardino inglese.

Esatto. È la strategia dei distributori, per attirare il pubblico. Comunque, grazie a quel film ho avuto la carriera che ho ancora oggi. Per certi versi anche Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante (1989) può essere considerato un biglietto da visita. È vero, pur trattandosi del mio sesto lungometraggio. Ha avuto un impatto notevole in termini di successo commerciale. Andò benissimo in America, ma non ci guadagnai personalmente perché il distributore era Harvey Weinstein, e non credo di dover aggiungere altro. Col senno di poi, ci sono delle cose estreme, anche un po’ ridicole, come l’atto di cannibalismo in un ristorante occidentale ai giorni nostri.

Quel film potrebbe essere realizzato oggi?

Ne ho parlato spesso con il produttore, e il mondo è cambiato. È un film del suo tempo, perché era l’epoca di Margaret Thatcher, e c’è una scena che mette alla berlina la sua mentalità materialistica. È cambiato anche il modo in cui consumiamo il cinema.

Lei dove si colloca per quanto riguarda la contrapposizione tra la sala e le piattaforme di streaming?

È un’evoluzione inevitabile, e per me il cinema, inteso come luogo, è morto. Mio padre e mio nonno andavano sempre in sala con un gruppo di amici, era un’esperienza collettiva, cosa che oggi esiste sempre meno. Lei va spesso al cinema?

Sono un critico, fa parte del lavoro.

Giusto, per lei è una questione professionale. Gli altri però, credo, vedono i film soprattutto da soli, in camera da letto, in ufficio, sul divano. Gli schermi tendono a essere più piccoli, non per forza delle dimensioni del mio smartphone, ma diciamo dal televisore in giù. I festival sono il luogo migliore per vivere ancora l’esperienza collettiva. C’è anche un altro aspetto: il cinema è nato nel 1895, e il sonoro è arrivato nel 1929. Ci sono circa tre decenni di film che il pubblico oggi non vede quasi mai. Chi guarda i film di Buster Keaton e Charlie Chaplin, fuori dalla cerchia di appassionati e studiosi? Mi tolga una curiosità: lei guarda film muti?

Sì, ma quasi esclusivamente ai festival, in occasione di omaggi o retrospettive.

Appunto. Parliamo quindi di tre decenni di cinema che molti spettatori non vedono proprio, e l’idea del cinema stesso, con la rivoluzione digitale, continua a mutare. Sono sicuro che i miei pronipoti si chiederanno che cosa fosse il cinema.

Lei ha detto che il cinema è morto.Quanto spesso va in sala?

Questo forse la sorprenderà, ma l’ultima volta che sono andato al cinema da spettatore, nel senso che ho pagato il biglietto e tutto, è stato per Velluto blu di David Lynch, quindi è passato un bel po’ di tempo. Mi aiuti lei, quando è uscito? Anni ’70?

1986.

Però, gli ho attribuito una longevità maggiore! Continuo a seguire assiduamente il cinema contemporaneo, per scovare attori, compositori e altri collaboratori e per tenermi aggiornato sulle nuove tecnologie, ma vedo i film armato di telecomando, e su schermi più piccoli. Comunque, tornando a Velluto blu, anche prima del 1986 non ero un frequentatore incallito delle sale. Divento molto impaziente quando vedo i film degli altri, preferisco andare a una mostra d’arte.

Max Borg
07 Novembre 2018

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