Our War: “Non siamo come Rambo”

Our War, diretto da Argentieri, Chiaravalloti e Jampaglia: un documentario - Fuori Concorso - sulla figura dei foreign fighters a supporto del popolo curdo, per combattere contro l'Isis


VENEZIA – Il popolo curdo, a pochi metri dalla linea di Daesh, combatte la propria guerra. 30.000 sono le persone – donne e uomini – che dal 2013 abbracciano la causa di Isis, pur appartenendo ad altre nazionalità, e così diventa di dominio pubblico la definizione di “foreign fighters”, combattenti stranieri. Eppure il termine non è esclusivo, perché esistono foreign fighters anche sulla linea curda, che decidono individualmente, liberamente, senza compenso, di supportare l’avanzata contro il terrorismo islamico in Siria, contro cui combattono a est l’esercito iracheno con sciiti e pasdaran iraniani, a sud quello siriano con il supporto aereo russo e le milizie sciite del Libano, mentre a nord le forze curde, integrate con soldati volontari dal mondo, tra cui l’italiano Karim Franceschi, lo svedese Rafael Kardari e lo statunitense Josha Bell, tre uomini entro la trentina d’anni che hanno scelto di schierarsi con l’Unità di Protezione Popolare (YPG) della regione di Rojava, Siria del Nord, di controllo curdo.

“Tutti i foreign fighters scappano da qualcosa, io da me stesso”: queste le parole di Josha, ex Marines, che dopo due missioni ufficiali in Iraq ha lasciato l’esercito americano per sostenere il popolo curdo; nelle sue parole fa rintracciare un sentimento comune al racconto degli altri due protagonisti, uno guardia del corpo speciale in Svezia, Rafael, che ha deciso di partire dopo aver visto in rete “video in cui Isis aveva messo in fila 12-15 bambini”, per ucciderli: “Quel video ha cambiato la mia vita”, dice. Karim, invece, la prima volta in quel teatro di guerra ci è “andato a portare aiuti umanitari”, ma l’esperienza diretta lo ha persuaso a tornare, più di una volta, per combattere contro un senso di ingiustizia che, sì è del popolo siriano, ma forse è piuttosto un concetto che va oltre la specifica situazione, eppure lì prende una forma molto concreta, epidermica, terrena, davvero fatta di sangue e polvere, perché quella del popolo curdo contro Daesh è “una guerriglia da colline … stile partigiani”, racconta sempre Franceschi, autore delle immagini dalla Siria, tre ore di girato che ha condiviso con il trio Argentieri, Chiaravalloti e Jampaglia, da cui è partito sostanzialmente il progetto documentario.

Our War sono 69 minuti di vita quotidiana europea, statunitense, nella calma apparente delle nostre città occidentali, che si alternano a sequenze di guerra – bombardamenti, vittime e conquiste – e, ancora, al racconto frontale, ma individuale, di ciascuno dei tre uomini, che così costruiscono il disegno di quella guerra, la loro personale storia “qui” e “lì”, il contesto della trincea, fatto di fasi di altissima concentrazione – le lunghissime nottate nere in cui la veglia e l’attenzione devono essere assolute – e momenti d’ironia che succedono per le necessità più basilari, come il tagliarsi i capelli, affidato all’unico parrucchiere tra di loro, un incapace con le forbici alla mano, per questo fautore di improbabili tagli di chiome. Eppure, uno dei punti di contatto tra loro si concentra nell’affermazione, forte e puntuale, per cui uno dice: “Non siamo dei Rambo”. Questa “possibilità” di partecipare alla guerra non può essere interpretata come un videogioco iperreale, ma deve avere una motivazione – qualunque essa sia, come ciascuno dei tre ammette e accetta – consapevole, include una dedizione all’addestramento militare e al rispetto dell’essere umano che ti combatte accanto, che non ti ha scelto, ma che tu, straniero, hai scelto: ribadiscono, lucidi e fermi, che Rambo, in Siria, nel YPG, non combatte e che se qualcuno – e più di uno c’è stato – approda in quel Nord con questo spirito cinematografico presto viene “rispedito al mittente”, salvo poi fare l’eroe in Patria tra pubblicazioni di libri e ospitate televisive, processi a cui anche Karim, Rafael e Josha non sono estranei, ma con una “esperienza” concreta, ripetuta, seriamente conscia. Con questo documentario si conosce un’altra faccia della guerra contro il terrorismo, non quella di fanatici dell’estremismo che si fanno affascinare dal nome di un Allah che non c’entra nulla, ma mostra un’altra declinazione possibile del foreign fighter nella guerra siriana.  

09 Settembre 2016

Venezia 73

Venezia 73

Microcinema distribuirà ‘The Woman who Left’

Sarà Microcinema a distribuire nelle sale italiane il film Leone d'Oro 2016, The woman who left, nuovo capolavoro di Lav Diaz. La pellicola, che nonostante il massimo riconoscimento al Lido non aveva ancora distribuzione e che si temeva restasse appannaggio soltanto dei cinefili che l'hanno apprezzata alla 73esima Mostra di Venezia, sarà quindi visibile a tutti, permettendo così agli spettatori del nostro Paese di ammirare per la prima volta un'opera del maestro filippino sul grande schermo

Venezia 73

Future Film Festival Digital Award 2016 a Arrival

Il film di Denis Villeneuve segnalato dalla giuria di critici e giornalisti come il migliore per l'uso degli effetti speciali. Una menzione è andata a Voyage of Time di Terrence Malick per l'uso del digitale originale e privo di referenti

Venezia 73

Barbera: “Liberami? E’ come l’Esorcista, ma senza effetti speciali”

Il direttore della Mostra commenta i premi della 73ma edizione. In una stagione non felice per il cinema italiano, si conferma la vitalità del documentario con il premio di Orizzonti a Liberami. E sulla durata monstre del Leone d'oro The Woman Who Left: "Vorrà dire che si andrà a cercare il suo pubblico sulle piattaforme tv"

Venezia 73

Liberami: allegoria del mondo moderno

Anche se l’Italia è rimasta a bocca asciutta in termini di premi ‘grossi’, portiamo a casa con soddisfazione il premio Orizzonti a Liberami di Federica Di Giacomo, curiosa indagine antropologica sugli esorcismi nel Sud Italia. Qualcuno ha chiesto al presidente Guédiguian se per caso il fatto di non conoscere l’italiano e non aver colto tutte le sfumature grottesche del film possa aver influenzato il giudizio finale: “Ma io lo parlo l’italiano – risponde il Presidente, in italiano, e poi continua, nella sua lingua – il film è un’allegoria di quello che succede nella nostra società". Mentre su Lav Diaz dice Sam Mendes: "non abbiamo pensato alla distribuzione, solo al film. Speriamo che premiarlo contribuisca a incoraggiare il pubblico"


Ultimi aggiornamenti