Olivier Assayas “La controcultura è morta, viva la controcultura”


VENEZIA – Non è un film sul ’68 come Les amants réguliers di Philippe Garrel o The Dreamers di Bernardo Bertolucci, ma su quello che è arrivato dopo. Con Après mai Olivier Assayas ha voluto raccontare la controcultura dei primi anni ’70, gli anni di formazione di un gruppo di liceali e adolescenti immersi nella militanza, attirati dalle droghe, dalla spiritualità orientale, dal terzomondismo, affascinati dall’arte e dal cinema, in viaggio tra l’Italia, gli States e Londra. Il loro percorso sentimentale e le scelte che li allontaneranno dalla giovinezza creandone l’identità. Un percorso chiaramente autobiografico, anche se il regista, già autore del monumentale Carlos sul più famoso terrorista degli anni ’70, ci tiene a prendere bene le misure: “Non credo molto all’autobiografia nel cinema: tutto è autobiografico e niente lo è. In realtà nel film propongo l’abbozzo di un ritratto collettivo. Più vero, almeno credo, che se mi fossi limitato alla stretta evocazione della mia adolescenza”. Film corale, dunque, come dimostra la sfilata di giovanissimi attori in conferenza stampa, la generazione di Occupy ma anche della sfiducia nel futuro e nella politica, come dicono alcuni degli interpreti, tra cui Clément Métayer, che è Gilles, in qualche modo l’alter ego del regista francese. Après mai è in concorso a Venezia e sarà in sala con Officine Ubu.

 

Il film racconta in qualche modo i ragazzi di un ambiente borghese, intellettuale e privilegiato.

Non credo, io sono cresciuto nella classe media, in periferia, tra persone di tutti i livelli sociali. Sono adolescenti che scoprono il mondo, non sono quelli che hanno fatto il ’68 ma ne vivono gli effetti. All’inizio li vediamo manifestare repressi dalle brigate speciali di polizia, motociclisti armati di manganelli, un corpo che fu sciolto dopo la morte di un liceale per le percosse.

 

Perché ha scelto di partire dal 1971, dal dopo ’68?

Innanzitutto per un motivo generazionale e personale, essendo nato nel ’55, poi perché il ’68 è stato già raccontato bene, anche se in modo frammentario, per esempio da Garrel.

 

Ha aspettato a lungo prima di affrontare questo periodo.

No, in realtà ne avevo già parlato con L’eau froide nel ’94. Lì con un approccio poetico e più astratto, stavolta in modo più realista e romanzesco.

 

Questi adolescenti del 1971 sono molto cupi e tristi, segnati da perdite e abbandoni precoci.

Spesso oggi i giovanissimi vengono rappresentati in commedia e diventano quasi una caricatura, tra sbronze e rimorchi. Gli adolescenti del film sono malinconici ma contemporaneamente hanno amore per la vita, c’è la natura, il sentimento di tenerezza, soprattutto durante il viaggio in Italia. Certo, i primi anni ’70 sono stati un periodo molto serio e alla fine un po’ triste, specialmente per l’ossessione della politica che faceva sentire la rivoluzione imminente. Gli studenti sentivano di avere un senso di responsabilità verso la classe operaia. Nella sinistra c’era qualcosa di triste e violento che si rifletteva sui giovani.

 

Cosa potrebbe dire ai giovani di oggi un film come “Après mai”?

Non volevo lanciare un messaggio, ma rappresentare le cose come le ho vissute. Se i giovani ci trovano qualcosa di interessante, per esempio la fede nell’avvenire che era tipica di quell’epoca e che oggi è scomparsa, va bene. Giudicheranno loro.

 

Il cinema allora era considerato dalla sinistra rivoluzionaria come un mezzo di controinformazione e nel film si parla molto di questo modo di fare cinema, si vedono anche dei pezzi di documentari sul Laos e sulla Bolivia. Ma questo atteggiamento viene criticato dal protagonista.

In effetti non penso che il cinema sia uno strumento di informazione, è arte che però può restituire il mondo nella sua complessità lasciando al pubblico l’interpretazione. Io non voglio mai orientare lo sguardo degli spettatori, come invece si pensava che fosse giusto a quell’epoca.

 

Oggi questo ruolo è svolto da internet.

All’epoca i media non erano come quelli odierni. Oggi tutto è accessibile a tutti in ogni momento. Allora i mezzi di comunicazione erano appannaggio degli adulti e i giovani li contestavano. La controcultura era una rete minoritaria ma diffusa in tutto il mondo, da Parigi a Londra a Berkeley. La musica, con i gruppi rock e l’underground identificava questa minoranza. Oggi le minoranze non esistono più, tutto è generalizzato. Ma l’arte resta una forma minoritaria che ha una risonanza maggioritaria. Potrei dire che il mio film è un omaggio all’underground e alla controcultura, che non ci sono più. Riposino in pace.

 

Nel film vengono contrapposti in una discussione il linguaggio del cinema borghese e quello del cinema rivoluzionario.

Il tema era forte all’epoca. L’idea era che il cinema dovesse filmare la realtà, mentre l’invenzione era tipicamente piccolo borghese. Anche La maman e la putain di Jean Eustache fu accusato in nome di questo pregiudizio. Faccio dell’ironia su questo aspetto, però mi sono formato in quell’epoca e il mio cinema è sempre stato una forma di risposta a questo, la scommessa sulla possibilità di narrare dei personaggi pur creando un nuovo spazio cinematografico.

 

Gilles è diviso tra due donne, la più concreta Christine, che poi sceglierà un uomo più grande di lui, e Laure, inafferrabile e idealizzata che rivive nell’ultima scena nonostante sia morta in un incendio.

Quella scena rappresenta la fede nell’arte come forma di resurrezione. Il potere dell’arte è la capacità di far rivivere e Gilles capisce che vuole fare cinema per riportare in vita la ragazza che ha amato.

 

03 Settembre 2012

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