A un certo punto, Robert Eggers si è creduto maledetto. “Non so se ce la farò” affermava affranto a chi gli chiedeva a che punto fosse il remake del Nosferatu di Murnau, agognato rifacimento del capolavoro del cinema tedesco capace, nel 1922, di cambiare per sempre le traiettorie della settima arte. “Mi chiedo se il fantasma di Murnau mi stia dicendo che dovrei smettere”. Dopo anni di tentativi, l’acclamato regista di The Lighthouse e The Northman, pupillo del cinema horror contemporaneo assieme ad Ari Aster e Jordan Peele, sembra avercela fatta. Il suo personalissimo Nosferatu è pronto e arriverà nelle sale l’1 gennaio 2025. “Non è un vero e proprio remake” ha spiegato l’attore Willem Dafoe – qui alla sua terza collaborazione con Eggers – introducendo l’anteprima del film. “È un lavoro originale, personale, a cui Robert arriva dopo aver visto per la prima volta l’opera di Murnau a soli nove anni”.
Confrontarsi con il capolavoro del 1922 farebbe paura a chiunque. Werner Herzog ci provò nel 1979, convinto che fosse obbligo del nuovo cinema tedesco riportare sul grande schermo le visioni orrorifiche ideate decenni prima dal connazionale. Grazie all’interpretazione di Klaus Kinski nei panni del Vampiro – tornato a chiamarsi Dracula dopo che per ragioni di diritti Murnau dovette inventarsi il “Conte Orlock” – l’arduo compito fu in parte raggiunto, ma il remake non scomodò dal trono la sua fonte. Uno straordinario calco, che restituiva colori e voci dove Murnau poté, per le tecnologie di allora, affidarsi solo alle musiche per colmare il vuoto. Non è un caso se il sottotitolo del film originale recita “Sinfonia horror”. Tutto in quel film è mitologia. A partire dalle origini dell’opera dell’autore tedesco, che uscì dagli schemi produttivi di inizio anni ’20 e portò la troupe a girare in un vero castello in Slovacchia, dove l’attore – allora sconosciuto – Max Schreck restituì il più impressionante vampiro della storia del cinema. Sul set, nessuno poteva chiamarlo per nome, era “il Conte Orlock”, per davvero, e appariva solo durante le riprese. Una storia incredibile, tramandata e ripetuta, protagonista anche di un film, Shadow of the Vampyre, dedicato all’incredibile e spaventoso dietro le quinte di Nosferatu: nel ruolo dell’attore Max Schreck, interprete del vampiro, proprio Willem Dafoe.
Per il suo Nosferatu, Eggers ha scelto Bill Skarsgård, mentre Dafoe è il Professor Albin Eberhart Von Franz, esperto di alchimia e occulto che guiderà la vera protagonista ad affrontare il terribile vampiro. Se infatti i nomi dei protagonisti dichiarano apertamente il legame con l’opera di Murnau – non c’è il Conte Dracula, come in Herzog, ma Orlock – il racconto subisce un lieve ma significativo cambio di prospettiva. Se fino ad ora eravamo soliti ricordare Thomas Hutter (Nicholas Hoult) come personaggio chiave, Eggers sceglie un’altra lettura. Il viaggio dell’agente immobiliare verso il castello del Conte non è il vero principio della storia. Eggers mette al centro la moglie Ellen Hutter, interpretata da un’impressionante Lily-Rose Depp. È con lei che ha inizio il racconto, dopo che un carillon fatto suonare nel buio rivela il volto della ragazza in agonia, rapita da visioni e incubi che rappresentano il vero cuore dell’idea di Eggers. Perché il suo Nosferatu cerca ragioni in quella zona limite, e terrificante, tra la veglia e il sogno. Nei suoi momenti migliori, Nosferatu è l’incubo di un incubo. A tal punto che in questo gioco di incastri onirici è difficile capire dove inizi e finisca l’immaginazione.
Allo stesso modo, la regia di Eggers è come sospesa in questo vuoto terribile e immaginifico. È esemplare il rifacimento di una delle scene più incredibili del film di Murnau: Hutter, giunto ai piedi del castello del Conte Orlock interessato ad acquisire una proprietà nel paese d’origine dell’agente immobiliare, dopo giorni di viaggio intravede all’orizzonte una carrozza. È notte, dal cielo – di un blu che da qui in poi marcherà distintamente l’incredibile fotografia del sodale di Eggers Jarin Blaschke – cade inesorabile una neve che nulla sembra avere a che fare con la natura. In sottofondo, il battito di un cuore si mimetizza con l’avanzare degli zoccoli dei cavalli che trainano la carrozza. È un maleficio, lo stesso per il quale l’ombra della mano di Nosferatu si allunga ineluttabile sul corpo di Ellen Hutter e di un intero paese, trasformato in un modellino tra le mani del diavolo. Hutter esce presto di scena, per tornare solo poi come comprimario della vera eroina della vicenda. Già Herzog l’aveva ripensata così, ma Eggers, anche grazie alle riletture contemporanee di molti classici, ci scommette ancora di più: questa è la storia di una donna destinata a sacrificare la propria anima per salvare il mondo. Non è solo il Vampiro ad essere ossessionato da lei. Il rapporto si intreccia e il male, qui, ha più di un volto. Trattata come una folle, legata alle catene di una società che chiama “malinconia” e “pazzia” ciò che non comprende, Ellen riporta alla superificie dell’800, secolo ammaliato dalla scienza, il potere dell’occulto.
Lily-Rose Depp non si risparmia, ed Eggers, vero vampiro della situazione, ne estrae ogni energia. Le inquadrature più potenti sono per lei, che apre e chiude la vicenda, abbandonandoci al terrore. Più esplicito, ma comunque ricercato, è l’irrinunciabile aspetto sessuale di questa storia, che riguarda nella sua interezza l’anima e la carne. E a tratti diventa persino una metafora del rapporto di coppia. A sorpresa, resta indietro Nosferatu. Perché Bill Skarsgård non riesce quasi mai a far tremare la sala come accadde con i vampiri di Kinski e Schreck. Eggers non dedica al mostro dei totali chiari e preferisce invece optare per un gioco di silhouette o, al contrario, per dettagli che alternano prima il taglio degli occhi e poi le lunghe unghie che stringono le sue prede. Spaventa, ma non è, davvero, memorabile. Anche se per la prima volta ne vediamo il corpo nudo divorato e consumato dal sangue. Un vampiro più animale che “Conte”. Eggers però, anche qui, non rinuncia all’opportunità di bucare lo schermo con la sguardo di Skarsgard. Come già fatto da Herzog, Nosferatu – vera entità paranormale – è più di un personaggio e ci vede, oltre lo schermo, osservare la sua storia.
Lascia il segno un sonoro senza il quale l’opera di Eggers sarebbe compiuta solo a metà. Il respiro di Nosferatu riverbera in sala e lascia attoniti, restando allo spettatore anche dopo la visione. I movimenti di camera disegnati da Eggers non si scompongono mai, costruendo una geometria che nella sua perfezione raggela lo sguardo. “Gli angoli retti dell’inferno sono più terribili delle curve celesti del paradiso” scriveva Baudelaire ne I fiori del male. Nel finale, quando deflagra la componente più esoterica e folk, diventa chiaro come Eggers abbia voluto non solo superare il materiale di partenza, ma anche rielaborare quella prima, folgorante, visione di Murnau, immergendola nella sua personalissima concezione dell’horror e della paura. E poi, c’è Dafoe. Manifestazione stessa del delirium tremens su cui questa storia mette radici profonde: il suo Professor Albin Eberhart Von Franz conosce il volto dell’incubo e traghetta i protagonisti, in particolare l’eroina Ellen, verso la strada di una ragione dimenticata, quella mistica di Nosferatu. Dafoe erge il personaggio sopra gli eventi grazie a una risata folle e a uno sguardo che sa incarnare stabilità mentale e perdita della ragione. Dove inizi una, e dove l’altra, è il cuore stesso di questa storia. “Il male viene da noi, o dall’aldilà?”.
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