Esce il 6 ottobre con Eagle in 200 copie Mine, il nuovo film di Fabio Guaglione e Fabio Resinaro (in arte Fabio & Fabio), sempre più proiettati verso il mercato internazionale dopo la positiva esperienza di True Love (2012). Il titolo va letto all’inglese (Main), e gioca sull’assonanza tra il termine che indica la ‘mina’ e quello che indica il campo semantico del ‘mio’.
Il canovaccio – casualmente simile a un recente film francese, Passo Falso – vede un soldato (la star internazionale Armie Hammer, già in The Social Network, The Lone Ranger e Operazione U.N.C.L.E.) restare incastrato con un piede sopra una mina in pieno deserto. Impossibilitato a fuggire pena il rischio di far esplodere l’ordigno, di fronte a una situazione disperata, si trova costretto ad affrontare i suoi demoni interiori e i punti irrisolti del suo passato. La convincente interpretazione di Hammer e una certa potenza visiva – con l’aiuto della fotografia pulita di Sergi Vilanova Claudin – compensano una narrazione un po’ frammentaria e che avrebbe forse giovato di qualche piccolo taglio in fase di montaggio, per un prodotto comunque piacevole e simile, per certi versi, al precedente Buried con Ryan Reynolds, che proprio la Eagle aveva distribuito qualche anno fa.
“Abbiamo girato il tutto in cinque settimane – spiegano i due registi – correndo parecchio e risolvendo molte questioni in post-produzione per risparmiare tempo perché avevamo una tabella di marcia davvero serrata. Abbiamo cancellato i cavi, la troupe e il mare, perché in realtà voi vedete un deserto ma quello era Forte Ventura, una mega spiaggia e località turistica molto frequentata. Ci siamo preoccupati parecchio quando abbiamo saputo che stava uscendo Passo Falso di Yannick Saillet. Anzi, ci è preso proprio un mezzo infarto. Subito abbiamo chiamato produzione e distribuzione ma poi abbiamo capito che i due prodotti pur partendo dallo stesso spunto erano molto diversi, anzi, quasi opposti, e quindi ci siamo tranquillizzati. Anche rispetto a Buried, o 127 ore, abbiamo un altro concetto. In quei casi i protagonisti sono veramente incastrati in situazioni estreme. Qui c’è un blocco che è anche autoimposto. E’ lui che sceglie di non muoversi per non rischiare, e questo è una metafora di quello che vive nella sua vita, ma anche della situazione in cui ci trovavamo noi al secondo film, dispersi in un campo minato. Per noi il ‘genere’ non è mai fine a sé stesso, lo usiamo sempre per raccontare qualcos’altro, inoltre questo film non ha un genere definito: è war movie ma anche ‘trap movie’. Un mistero esteriore che diventa interiore, quindi prende la forma anche del dramma”.
Armie Hammer, che figura anche tra i produttori esecutivi, ha occasione per mostrare un lato finora sconosciuto del suo talento: “Non abbiamo pensato subito a lui – dicono ancora gli autori – era sempre così solare, bello e sorridente. Noi volevamo un tipo più introverso. Ma abbiamo cambiato idea quando lo abbiamo incontrato. Però gli abbiamo voluto togliere il ciuffo. Tra l’altro stava per diventare papà e dovevamo sbrigarci a finire le riprese prima che diventasse indisponibile. Sua moglie è venuta a trovarlo sul set e lui stava lì a guardarla imbambolato finché non l’ha vista sparire tra le dune. Solo dopo abbiamo potuto riprendere a lavorare. Insomma, era in una situazione emotiva simile a quella del suo protagonista, che lo ha aiutato”.
Ma come fanno due registi a gestire un lavoro tanto complesso senza pestarsi i piedi? “Litighiamo moltissimo – concludono i due scherzando – ma in realtà siamo molto precisi. Arriviamo con gli storyboard pianificati al dettaglio, poi sul set, per scontrarsi, non c’è tempo. Qualche volta improvvisiamo, ma te lo puoi permettere soltanto se prima hai programmato tutto a puntino, sapendo dove ti porterà ogni minima variazione”.
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