Monica Vitti è ancora tra noi. Anche se non lo è fisicamente. Anche se nel tempo, prima di lasciarci definitivamente, si è distanziata dal nostro Mondo in un lento e inesorabile sbiadimento della memoria.
Monica Vitti abita il nostro immaginario e chiunque ami il cinema non può non continuare ad ammirare colei che fu la musa di Michelangelo Antonioni e la compagna di avventure di mostri sacri come Mastroianni, Giannini, Delon e Sordi. Un’attrice unica e irripetibile.
Monica è tra noi e lo è ancora di più in questo periodo, in seguito all’uscita di un film che ha fatto molto parlare di sé: Mi fanno male i capelli di Roberta Torre, presentato alla Festa del Cinema di Roma e capace di far aggiudicare alla sua protagonista – Alba Rohrwacher – il premio come miglior attrice.
La Rohrwacher interpreta Monica, una donna che vede la sua memoria sfilacciarsi per colpa di una malattia degenerativa. La sua vita si strappa, smarrisce le coordinate, fino a che la donna trova il modo di restituire senso alle cose prendendo in prestito i ricordi di un’altra Monica, che ha sempre adorato. La Vitti, appunto.
Si veste come lei, la imita, si identifica fino rivive le scene dei suoi film, tra i quali non può mancare Polvere di stelle.
Ecco, Polvere di stelle: il 15 novembre di 50 anni fa, dopo Amore mio aiutami, l’irresistibile coppia Alberto Sordi-Monica Vitti tornava al cinema con un altro memorabile saggio di bravura, senza dubbio il migliore del loro fortunato sodalizio artistico. Il titolo era ispirato a quello di un’omonima canzone molto popolare negli anni ’40 – periodo in cui si colloca principalmente la trama – e metaforicamente legato alle vicende narrate.
Nel flashback che fa da ossatura alla storia siamo, infatti, nella Roma del 1943, in piena Seconda Guerra Mondiale. La compagnia teatrale di Mimmo Adami (Sordi) e Dea Dani (Vitti) naviga in acque difficili: dopo i fasti degli anni passati ora vivono una situazione professionale precaria. Poi una prima buona trasferta negli Abruzzi – proprio durante i bombardamenti – e il viaggio a Bari, dove trionfano grazie alla buona vena degli americani appena sbarcati, che trasformano lo spettacolo Polvere di stelle in un successone. Il ritorno a Roma però, dopo tante illusioni, significherà il ritorno alla vita grama di tutti i giorni.
Dietro a questo viaggio di andata e ritorno da e verso l’inferno della misera quotidiana c’è l’Italia della guerra, con suoi gerarchi fascisti da quattro soldi, i saluti romani, i teatri storici (il Petruzzelli di Bari). C’è un baratro sociale che si spalanca inesorabile sotto i loro piedi.
Alberto Sordi confeziona un film particolare, ibridato col musical, che è diventato mito e a mezzo secolo di distanza continua a popolare, con certe battute e stralci di canzone, i ricordi cinematografici di tanti italiani. Un dialogo tra Mimmo e Dea è esemplare:
“E chi so’? / So’ generali, non li vedi? / Ma ‘n do’ vanno? / Questi vanno in trincea! Ma allora c’è pericolo: perché, se noi annamo dove vanno loro, domattina semo in prima linea! / Tutto il contrario! Fossero soldati, lo capirei. Ma se tu vai ‘n do’ vanno i generali, sta’ tranquilla che il nemico sta dall’altra parte”.
Forse di tutte le regie dell’Albertone nazionale quella di Polvere di stelle è la più spigliata e dal ritmo più efficace. Grazie anche a una Monica Vitti frizzante, divertita, divertente e malinconica allo stesso tempo. Dotata di quel sex appeal naturale, mai ostentato. Mai caricaturale. Divina Dea del film, in tutti i sensi.
Polvere di stelle è anche un’opera nostalgica e crepuscolare, già per quella metà degli anni 70 in cui vide la luce. Al centro della scena ci sono i fasti dell’avanspettacolo, cioè il varietà d’introduzione (ad altri spettacoli, come i film del cinematografo) molto popolare in Italia fino all’inizio degli anni ’60, caratterizzato da povertà di mezzi e da un livello artistico approssimativo: spesso gli attori erano poco più che strimpellatori ambulanti, i ballerini più ridicoli che genuinamente spassosi, i copioni quasi sempre approssimativi e sciocchi. Eppure, il pubblico li amava per la loro impronta popolare e ridanciana. Fino a che la scure della televisione e il cambiamento delle tendenze decapitarono questa forma di intrattenimento da “due soldi” (ma dal gran cuore) decretandone la sua inevitabile fine.
Molti dei suoi artisti furono risucchiati in un inevitabile dimenticatoio, vittime della dura regola dello spettacolo già centro narrativo del bellissimo Luci della ribalta di Charlie Chaplin. Anche Dea Dani e Mimmo Adami non sfuggono alla trappola dell’oblio: nel 1973, vecchi e squattrinati, mentre cercano un impresario con la flebile speranza di essere ingaggiati per uno spettacolo, fermano un gruppo di passanti raccontando la loro storia fatta di fame, successo, flirt, illusioni, delusioni e soprattutto residui di luce: polvere di stelle, appunto.
Le battute sagaci, le coreografie leggere e le canzoni allegre composte da un ispirato Piero Piccioni ci restituiscono un omaggio commosso al mondo in cui Sordi ha effettivamente mosso i primi passi e sviluppato il suo inesauribile talento.
Un film straordinario, dunque, che non può mancare nella collezione di tutti gli amanti della commedia italiana e che andrebbe recuperato ora che spegne le sue 50 prime candeline mentre echeggia in sottofondo il suo motivetto più memorabile:
Ma ‘ndo vai
se la banana non ce l’hai?
bella Hawaiana
attaccate a sta banana…
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