Mateo Zoni: “La mia Ulidi, all’ombra di Basaglia”


TORINO. C’è anche la 18enne protagonista di Ulidi piccola mia, in concorso a Torino 29, a fianco del regista Mateo Zoni, ma è cambiata radicalmente d’aspetto dalla Paola sovrappeso del film. Dimagrita di oltre venti chili, un taglio di capelli più alla moda, e la consapevolezza che la sua storia autentica sarà vista da un pubblico. Nel film come nella realtà Paola è figlia di una donna musulmana e di un contadino italiano, ma da quattro anni (ora non più) vive in una casa famiglia, dopo che ha tentato due volte il suicidio e ha subito quand’era bambina una violenza sessuale. Il distacco dalla famiglia è stato necessario per poterla curare delle crisi autodistruttive che la fanno sprofondare nell’abisso. Il 32enne regista parmense, scuola di cinema a L’Aquila, pedina con grande delicatezza e sguardo pieno di comprensione e non invasivo il riscatto di Paola, o meglio di Ulidi come la chiama dolcemente la madre, dalla sofferenza interiore. Accanto a lei nella casa famiglia altre giovani. Giada è un’eterna bambina, a causa di un ritardo mentale, mentre Marcella è anche lei alle prese con forti crisi adolescenziali e con l’ingresso nell’età adulta. Sono loro le protagoniste di Ulidi piccola mia che sembra somigliare a una docu-fiction. Il film, girato tra Fidenza, Salsomaggiore Terme e Noceto, è costato 100mila euro. Distribuito da Cinecittà Luce, è prodotto da Indigo Film di Giuliano e Cima e da Solares Fondazione delle arti, con il sostegno di Cineteca di Bologna, Film Commission Bologna, Comune e Provincia di Parma.

Vedendo ora Paola sembra che questo film sia stato anche una terapia efficace per lei ?
Non ho mai creduto che i film avessero una funzione terapeutica, ma la realtà dei fatti è che Paola dopo aver interpretato la pellicola, sta meglio. Ha iniziato una vita nuova, ha lasciato la comunità, divide un appartamento, ha ricominciato gli studi superiori, ed è cambiata tantissimo fisicamente come ha notato.

 

Come è nata l’idea di questa opera prima?
Da uno spettacolo teatrale dove Paola cantava come vediamo all’inizio. Uno spettacolo della regista Letizia Quintavalla, che ha lavorato molto con Marco Baliani, Mariangela Gualtieri, e con il Teatro delle briciole di Parma. E poi è stato ispirato dal libro della psichiatra Maria Zerilli “Fuga dalla follia. Viaggio attraverso la legge Basaglia”, in particolare da alcune storie di adolescenti pubblicate in appendice. Ma la vicenda di Paola non è contenuta in questo libro.

Quale metodo di lavoro ha adottato perché i soggetti non si sentissero disturbati dalla vicinanza della videocamera?
Il metodo è stato poco spiegato, ho usato poche parole per inserirmi in ambienti così intimi. C’è stata un’intesa di sguardi e di atteggiamenti grazie a una piccola troupe, selezionata per la sua umanità schietta e diretta. Sceglievamo l’ambiente, decidevamo parte dei dialoghi, ma tutto a grandi linee, perché per queste ragazze sarebbe stato difficile recitare un copione. L’importante era lasciarle libere e ciò ha consentito una facilità e iun’immediatezza espressiva.

C’è stata una preparazione iniziale con le giovani e i genitori?
C’è stato subito un lungo discorso con tutti, un’approfondita spiegazione molto tecnica, ma al momento della lavorazione ha avuto il sopravvento l’istintività. Mi sono quasi abbandonato, un perdersi durante le riprese che è una tecnica pericolosa perché non sempre ti porta a quella verità molto pura che ricerchi. Per trovare il Sacro Graal i cavalieri dicevano: tu devi perderti, devi andare nella foresta più impenetrabile e solo così lo trovi, rischiando la vita.

Come definirebbe il suo lavoro?
Più un film che un documentario, che ha richiesto quaranta giorni di riprese per lo più continuativi. Ho scartato molte cose ‘ sporche’, senza sacrificare nulla. Abbiamo usato una Sony digitale che offre una qualità d’immagine molto buona, ma è difficile da manovrare.

La difficoltà più grande?
Quella all’inizio dei permessi, delle autorizzazioni, perché abbiamo dovuto spiegare il nostro progetto filmico ai servizi sociali e agli psicologi. Ci ha portato via molto più tempo che realizzare il film stesso.

I genitori di Paola come hanno reagito?
Hanno aderito da subito al film, il padre è un uomo intelligente e istruito, legge molto come è evidente subito sullo schermo. Anche la madre era contenta di raccontare la propria storia.

Alla fine il cuore del suo film non è la malattia ma l’individuo con le sue debolezze?
Dal film emerge che le persone problematiche non sono tanto diverse da quelle normali, se non che sono più sensibili. Che la malattia mentale va relativizzata. Ma il mio esordio contiene anche le difficoltà, le crisi di un’adolescente che va costruendo la propria identità.

Non hai pensato a un adolescente maschio come protagonista?
Mi serviva un alter ego, nel senso che una donna mi permetteva di parlare di me stesso con un certo distacco. Se ci fosse stato un uomo, avrei corso il rischio di scivolare nell’autobiografico, mentre si riesce a raccontare meglio avendo una certa distanza.

 

E il prossimo progetto?

Per ora mi piacerebbe recuperare un mio cortometraggio realizzato nel 2007, Quando arrivano le vacanze. E’ la vicenda di una ragazza che finisce la scuola, viene promossa ma lei non vuole. “Ho sbagliato apposta l’esame, perché mi promuovete?” dice agli insegnanti. Una ragazza che non vuole confrontarsi con l’età adulta e preferisce restare in quel luogo protetto e conosciuto.

29 Novembre 2011

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