Martínez: “Ritorno alle origini con una storia di narcotraffico e famiglia”

Al Noir e presto in sala Pajaros De Verano (Birds of Passage) di Cristina Gallego e Ciro Guerra, un film che racconta le origini del traffico di droga in Colombia attraverso la storia di una famiglia


COMO – Dalle foreste colombiane nasce il mito delle tribù della droga e delle guerre fratricide alimentate da onore e denaro, protagoniste di  Pájaros De Verano (Birds of Passage) di  Cristina Gallego e Ciro Guerra, autore di L’abbraccio del serpente. Un film che racconta le origini del narcotraffico in Colombia attraverso la storia di una famiglia indigena Wayuu che, nel corso di tre decenni, tra gli Anni Sessanta e Ottanta, abbandona progressivamente le attività tradizionali per dedicarsi al nuovo lucrativo commercio di marijuana che viene trasportata tra la Colombia e gli Stati Uniti attraverso la zona del deserto Guajra, uno dei territori più inospitali della Colombia. In Concorso al Noir in Fest e candidato all’Oscar per la Colombia, Pájaros de Verano, che ha aperto la Quinzaine di Cannes, arriva a breve nelle sale italiane con Academy Two. Tra le interpreti principali Carmiña Martínez, che abbiamo incontrato al Noir, nel ruolo di una matrona che tiene a tutti i costi insieme la famiglia e l’intera comunità. 

Com’è stato interpretare un film che parla di uno dei popoli indigeni della Colombia, i Wayuu, e che la riporta alle radici della sua famiglia legate proprio a quel territorio? 
Girare questo film è stato un ritorno alle mie radici e alle origini della mia famiglia. I registi hanno fatto una narrazione visuale degli usi e dei costumi ancestrali del nostro popolo, mostrandone aspetti fondamentali come la nascita e l’evoluzione di una donna, l’importanza della vita, della morte e dei sogni. Così come il valore della parola data, che deve essere in ogni caso rispettata. Hanno collegato tutti questi aspetti con un filo dorato che è rispettoso delle caratteristiche della nostra comunità.

La figura che interpreta, Úrsula, è una donna forte, capace di prendere qualsiasi decisione per il bene della famiglia.
La figura della madre è fondamentale, ha il ruolo di tenere tutto insieme e di proteggere ad ogni costo la sua famiglia. È un personaggio di una forza straordinaria, pieno di tante sfumature e livelli, che va alla profondità dell’essere umano alla leggerezza dettata dalla vita quotidiana, dal fare e disfare di tutti i giorni.

Da dove ha tratto ispirazione per costruire il personaggio?
Ho iniziato attraverso la ricerca delle mie origini, riprendendo i contatti con tutta la filiera femminile, madri, nonne, zie, per tentare di costruire il personaggio attraverso i legami familiari e il vissuto personale. Ho cercato, poi, di capire come funzionano le imprese familiari in cui è la donna che amministra e organizza tutto. Un terzo livello d’indagine l’ho rivolto alle donne dei grandi classici della tragedia greca, che ho più volte rappresentato in teatro. Infine, nel combinare tutti questi elementi insieme, ho cercato di delocalizzare la storia e renderla universale. 

Il film è stato girato a quattro mani da Cristina Gallego e Ciro Guerra. Come si sono sudivisi il lavoro sul set? Ha avvertito differenze nell’essere diretta da uomo piuttosto che da una donna? 
Sono state due prospettive differenti. Ciro è stato sempre molto attento a farci evitare qualsiasi elemento di eccessiva teatralità, non voleva che fossimo troppo debordanti nella recitazione. Cristina ha, invece, una visione opposta: per lei la parte intima ed emotiva è importante, e tende a sottolineare la solidarietà femminile e la componente emozionale nella recitazione. Il personaggio di Úrsula è diventato forte grazie alla combinazione di queste due visioni. 

Nel film viene mostrato che per la cultura indigena la famiglia significa tutto, dove c’è famiglia c’è rispetto. È ancora così per la cultura Wayuu contemporanea? 
Assolutamente sì. I Wayuu nel corso negli anni hanno mantenuto i loro costumi e curato le tradizioni. Tra tutte, la famiglia è una base importantissima, l’elemento principale. I componenti della famiglia darebbero, letteralmente, la vita per gli altri fino alle più estreme conseguenze. Se la famiglia deve estinguersi pur di mantenere la sua unità lo si lascia accadere, proteggendosi e difendendosi ogni volta e comunque. 

Viene, inoltre, sottolineata l’importanza della parola data.
La parola è così importante che il “palabrero”, colui che porta la parola da una comunità all’altra, è un personaggio esistente all’interno della società, e fa più o meno la funzione dell’avvocato, ma senza leggi e codici, basandosi su uno scambio di parola data che viene rispettata sempre. 

Nel film si rimarca l’importanza dei sogni, “la prova che l’anima esiste” li definisce uno dei personaggi, che assumono però anche un valore concreto di guida delle azioni quotidiane della comunità. 
Il rispetto verso il sogno è un elemento che, in un certo senso, rende ancora più coesa la comunità. Nei sogni si vede il futuro, il sogno mette l’uomo davanti a simboli da riconoscere, accettare e rispettare. I simboli parlano e dicono cosa sta per accadere, e quando parlano quella cosa succede. Un elemento ulteriore, e ugualmente importante, è il senso della morte: i Wayuu credono che le persone non ci abbandonino, e per mantenersi in contatto non devono essere sepolte una volta per sempre, si fa più di un funerale e si dissotterrano i resti più volte come si vede nel film. 

In questo periodo si parla molto di narcotraffico, ci sono sempre più serie e film di successo che hanno reso quasi un cliché l’abbinamento narcotraffico-Colombia. Come vive il popolo colombiano tutta questa attenzione? 
Non so perché c’è questa attrazione fatale per la storia del narcotraffico, in Colombia come nel mondo. È una specie di moda, e per questo è diventata anche un punto di partenza per molte storie, poiché i produttori hanno capito che questi temi hanno successo e generano grandi grandi guadagni. Nelle comunità ancestrali che vivono ancora nei villaggi di confine, il problema sono piuttosto i giovani che vogliono uscire nel mondo, una cosa che in realtà ritengo giusta, io stessa sono partita dalla comunità per studiare recitazione. Ne sono uscita ma mi sento estremante legata alla mia comunità e il ritorno è ogni volta fondamentale.

Le donne nel film hanno un ruolo centrale: resilienti, potenti, guidano le decisioni. Gli uomini, invece, appaiono a tratti deboli e vittime dell’alcolismo. È un problema reale nella comunità odierna?  
Non è massificato nella società, non è diverso da quello che vediamo in generale nel mondo. La Guajira è un porto franco da cui è sempre entrato il contrabbando di alcol, sigarette, droghe. Qualcosa che, evidentemente, ha reso più semplice la tentazione. Per un Wayuu è molto facile accedere a una bottiglia di whiskey, il cui costo è più o meno quello di una Coca Cola, ma in realtà non direi che in proporzione rappresenta un problema numericamente significativo per la comunità. 

 

 

Carmen Diotaiuti
07 Dicembre 2018

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