CANNES – Ha fatto, come di consueto, scalpore il nuovo film di Lars von Trier La casa di Jack, che segna il ritorno del misantropo regista danese, fuori concorso, al Festival di Cannes, che l’aveva definito “persona non grata” nel 2011 per le sue dichiarazioni apertamente naziste rilasciate in occasione della conferenza stampa di Melancholia. “È stato punito abbastanza ed era ora di far tornare l’artista”, aveva sottolineato il delegato generale di Cannes in occasione della presentazione alla stampa del programma ufficiale, a proposito del regista già vincitore della Palma d’Oro nel 2000 per il suo Dancer in the Dark e che a cinque anni da Nymphomaniac torna a fare scandalo con un racconto che s’immerge, questa volta, non nei corpi ma tra le pieghe inquietanti e oscure della mente di un serial killer, rivisitando in maniera contemporanea una delle storie più affascinati e macabre dei nostri tempi, quella di Jack Lo Squartatore, che ambienta nell’America degli anni ’70.
Un film che si annunciava cruento e brutale sin dall’inizio, tanto che gli stessi biglietti venduti per la prima al Grand Théâtre Lumière segnalavano la presenza di scene di violenza esplicita che avrebbero potuto offendere la sensibilità degli spettatori. Avvertimento che, a quanto pare, non è bastato al pubblico che aveva dapprima accolto con una standing ovation l’ingresso in sala del regista, ma che dopo le prime scene del film si è allontanato numeroso dalla proiezione per protesta, lasciandosi andare a prime reazioni via Twitter che vanno dal “disgustoso” e “pretenzioso”, fino al “non degno di essere realizzato”. Diversa, invece, l’accoglienza della stampa che nella successiva proiezione riservata si è lasciata andare ad un, seppur non del tutto caloroso, applauso.
Protagonista del film un uomo oscuro e profondamente disturbato, Jack, interpretato da un inquietante e luciferino Matt Dillon, che dopo aver ammazzato una donna che gli aveva chiesto soccorso per strada, si convince di dover continuare ad uccidere per raggiungere la perfezione. Un ingegnere psicopatico, con velleità da architetto e tendenze ossessivo-compulsive, che presto si scopre essere uno spietato serial killer di cui lo spettatore segue l’evoluzione criminale attraverso la presentazione di quelli che lui definisce “incidenti”. Un personaggio macabro e spietato che mette in scena ogni suo omicidio come se fosse un’opera d’arte, sempre più complessa e ingegnosa, perché “le più grandi cattedrali hanno opere d’arte sublimi nascoste negli angoli più bui perché solo Dio possa vedere, e così sono anche gli omicidi”, illustra con spietata logica nel flusso di coscienza rivolto a Verge (Bruno Ganz), un personaggio misterioso a metà tra il reale e l’immaginario, con cui nel corso del film l’uomo intavola ricorrenti e approfondite conversazioni sulle sue condizioni personali e sui suoi pensieri, in dialoghi che mescolano in maniera grottesca sofismi e autocommiserazione, per svelare, infine, la natura dell’Inferno di Jack che deriva dalla disperazione dell’aver troppo morso la mela della conoscenza.
Non mancano, certo, nel film una serie di torture, mutilazioni che non risparmiano bambini e animali, visi sfracellati con il cric come in un quadro cubista, corpi deformati alla William Blake o immobilizzati in una smorfia alla Jocker, vittime brutalizzate come Uma Thurman, colei che incautamente dà il via alla fredda parabola criminale di Jack, Siobhan Fallon Hogan, Sofie Gråbøl e Riley Keough. Anche la stessa Germania nazista, che già non pochi problemi ha causato alla reputazione del regista, viene evocata attraverso immagini di aerei tedeschi e di Hitler, mentre Jack dice la sua sulle icone e sul loro significato.
La pellicola, che al disturbante sa, però, unire momenti di riflessione estetica sul male e profonda ironia, sarà distribuita in Italia dal 28 febbraio con Videa.
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