BERLINO – Nei rumori infernali di una cucina di un grande ristorante, il cinema degli ultimi anni ha trovato la metafora perfetta. Che sia in The Menu o in The Bear, si cela una qualche verità tra spadellamenti e grida di una brigata sempre sull’attenti. Non è una novità, ma i titoli che si sono dedicati a questo spazio, con plausi di critica e ampio riconoscimento di pubblico, stanno aumentando. Una conferma che arriva anche dalla 74ma edizione del Festival di Berlino, con la partecipazione in concorso de La cocina, del messicano Alonso Ruizpalacios, già due volte vincitore dell’Orso d’argento. Un film che si oppone all’estetismo di altri esempi del genere e abbraccia il caos che domina le cucine di un grande ristorante di franchise nel cuore di Manhattan, dove si accumulano lavoratori, per lo più immigrati in attesa delle “carte” per diventare cittadini statunitensi.
La cocina lavora per contrasti: Ruizpalacios ci obbliga in questi spazi e li riprende con lunghi piani sequenza controllati nel minimo dettaglio, mentre al loro interno va in scena un circo degli eccessi, a tratti difficile da seguire ma sempre entusiasmante. Diretto in uno splendido bianco e nero, La cocina è di certo figlio di Cuaron e del suo Roma (la regia ne è una diretta conseguenza), ma l’adattamento dell’opera teatrale di Arnold Wesker del 1959, The Kitchen, offre a Ruizpalacios l’occasione per parlare di capitalismo, umanità allo stremo, sogni e amori.
Convivono tante anime in La cocina, incrociate in piani sequenza che lasciano scorrere le immagini e gli eventi in un unico percorso. Partiamo dalla prospettiva, bassa, di una giovanissima immigrata giunta dal Messico. Le ombre che si stagliano sulle pareti della labirintica cucina presentano spazi simili a prigioni. Non lasceremo quasi mai questo luogo, seppelliti assieme ai tanti personaggi in questo inferno senza pace. La prospettiva cambia quando il punto di vista passa su Pedro (Raul Briones), cuoco geniale e piantagrane, disperatamente innamorato della cameriera Julia (Rooney Mara).
La loro storia d’amore si inserisce nel contesto senza cambiare l’anima del film, confermando la cucina come teatro di molti spettacoli in sequenza, alternati in un gioco di incastri. La cocina è infatti una galleria di primi piani, ritratti su personaggi provenienti da ogni luogo del mondo, in dialogo attraverso i propri modi, idiomi, una comunicazione degli eccessi che diventa tutt’uno quando arriva l’ora di punta e serve gridare i piatti, gli ingredienti, le comande.
“Volevo mostrare l’altra parte dell’industria alimentare dove l’opportunità è più importante della qualità del cibo. È insomma una metafora del capitalismo aziendale” ha dichiarato il regista messicano. E aggiunge: “Anche se si è tentati di vedere La Cocina come un film sull’immigrazione il suo vero significato è però altrove. Il fatto che questi personaggi siano immigrati clandestini è solo una condizione, una circostanza, un dato di fatto. Ma quello con cui questi ‘invisibili’ stanno davvero lottando è trovare un senso di sé, di comunità e di fratellanza nel bel mezzo del loro duro lavoro”.
Per quanto costretti tra le pareti del ristorante, in La cocina non manca New York. La grande mela si impone a inizio film in una breve sequenza che avanza per scatti, a frame bassi, sincopando la città tra fumi, rumori, atmosfere. Tutto questo rientra perciò nella cucina, che diventa luogo summa di un tempo e di un luogo, dove New York è New York, anche senza palazzi, ma con lo stesso grigiore e ritmo fuori controllo.
In soli due momenti Ruizpalacios riporta in scena il colore. Anche qui il messicano sceglie l’intuizione più espressiva, prediligendo una tinta unica (blu in una scena, verde in un’altra) che richiama le tecniche di colorazione del cinema muto. Sono in particolare momenti di grande tensione, quando entra in gioco l’amore e La cocina diventa anche un film pieno di sentimenti netti ma ancora una volta disperatissimi. Lo spettatore ne è attratto, come in una fiera, e la sequenza di volti – a cui a mano a mano diamo una voce grazie a brevi monologhi o scambi di battute – cambia anche il formato, dissezionando in ogni modo possibile le azioni che avvengono su schermo.
Alla fine Pedro è il cuore pulsante, metafora nella metafora, portato all’estremo, a volte fino al ridicolo. La distruzione del macchinario che stampa gli scontrini e detta il ritmo al loro lavoro, azione compiuta per mano di Pedro, è un gesto di liberazione, alternativa al caos accettato di buon grado in una routine infernale che non lascia spazio a chi la vive di coglierne l’assurdo. Nemmeno l’amore, o il gesto più estremo, sortisce però grandi effetti. La cocina, che a tratti può sembrare persino un Musical interpretato da ubriachi, è alla fine un film molto serio, e non ha catarsi o epifanie, solo brevi interruzioni prima che la consuetudine infernale della cucina, metafora di una vita contemporanea, riprenda a girare su se stessa.
Il programma “Spagna in Focus” dell'European Film Market esaminerà la scena cinematografica spagnola e offrirà numerose opportunità di dialogo con produttori, distributori, investitori
Questo nuovo concorso a sé stante includerà fino a 14 opere prime di fiction provenienti da tutto il mondo, con una giuria composta da tre persone
In seguito alle polemiche sulle dichiarazioni di alcuni premiati sul palco della Berlinale, sul canale Instagram della sezione Panorama sono stati pubblicati post e immagini antisemiti. Il festival ha denunciato la violazione alle autorità
Con questo documentario dedicato al rientro in Benin di 26 delle migliaia di opere depredate dall'imperialismo francese, la regista francese di origini senegalesi ha conquistato l'Orso d'oro della Berlinale 2024