LOCARNO – “La sua malinconia mi è molto vicina”, così Laura Luchetti riferendosi a Cesare Pavese, autore de La bella estate, da cui lei ha liberamente tratto e diretto il film in anteprima assoluta a Locarno76, nella sezione non competitiva “Piazza Grande”.
Rispetto a Pavese, “il film è un atto d’amore e terrore, e anche di umiltà per essere nel cuore del libro senza stravolgerlo e su un tema universale, l’adolescenza, da cui parte il futuro. Ho riletto quindici di volte il libro e le pagine vibravano nei momenti del desiderio: lo sguardo di Pavese mi ha colpita perché ho una figlia dell’età di Ginia e le tematiche sono quelle di sempre, ecco perché la scelta di mantenere il racconto in costume. La giovinezza è rivivere un paradiso perduto. Gli uomini sono visti da me con meno ferocia che nel libro, e in Pavese mi colpiscono i contrasti campagna-città, che ti danna, ma questa è la storia di una ragazza, di un gruppo: il tremore che si ha nell’ avvicinarsi al desiderio e lo scegliere di essere qualcuno è il cuore, questo mi ha colpita. Pavese ti porta in un mondo – l’atelier, Guido, il fratello – e poi ti dà uno schiaffo nelle ultime pagine: sussurrando ti avvicina ad Amelia e Ginia, per lei è quel momento in cui devi avere coraggio per essere donna”.
Nel film di Luchetti – appunto liberamente tratto dal romanzo La bella estate, raccolta di tre brevi, scritti in tempi diversi, con la pubblicazione del ‘49 che comprendeva La bella estate (1940), Il diavolo sulle colline (1948), e Tra donne sole (1949) – c’è la poesia di Pavese, dal frinire delle cicale alle fascette di legno color miele delle sedute del tram; c’è l’eleganza degli Anni ’30 e quella insita – a prescindere dal tempo storico – in una città come Torino; c’è una bellezza femminile antica e al contempo così essenziale da essere modernissima, come modernissima lei sboccia nella sua bella estate torinese, quella del ’38, dopo il recente trasferimento dalla campagna insieme a un lampionaio dalle velleità poetiche e con l’ambizione di iscriversi all’università, suo fratello Severino (Nicolas Maupas). Lei è Yile Yara Vianello, Ginia nella storia, sartina dal talento maturo, e loro – sorella e fratello – sono due bravi figli della campagna dove hanno lasciato mamma e papà, a cui scrivono, ma per lei la città è lo spazio per “scrivere” in prima persona il suo romanzo di formazione, vissuto anima e corpo in un’atmosfera bohèmian, che le fa offrire e scoprire il corpo, dapprima con un giovane uomo, Guido, (Alessandro Piavani), pittore. E non solo quello di lui.
Rispetto alla trasposizione dal libro, Luchetti spiega che “in qualsiasi momento si racconti qualcosa c’è già in atto un adattamento e aver paura è normale, e organico: ognuno di noi ha un modo di raccontare. Devo ringraziare i produttori perché il libro mi è stato proposto da loro, dopo averlo io riletto un annetto prima: è un libro di atmosfera, sussurrato, è molto difficile ma è il tipo di lavoro che piace a me. L’adattamento è stata una costante rilettura per rispetto a Pavese: in alcuni dialoghi sono rimaste delle sue parole. L’adattamento non è però solo di scrittura, ma anche di costume, senza mai tradire il racconto femminile e di crescita: io ho sempre pensato che Pavese fosse Ginia, un soggetto che deve combattere con il mondo per darsi voce. Il pensiero di adattarlo all’oggi ci ha fatto dire ‘no’, perché era già attuale: il corpo è uno strumento politico oggi per i giovani, ma la tematica è quella scritta da un signore già oltre 80 anni fa” e, a proposito di tempo, questa storia ha una precisa collocazione storica che, continua la regista “è un tema che abbiamo approfondito molto: nel libro Pavese fa riferimento a una adunata. Questa epoca è un’ombra che si sente, ma mi ha colpita il suo aver ragione: nel momento della formazione, del desiderio, può succedere qualsiasi cosa intorno/fuori ma è dominante l’istinto. Mentre scrivevamo, mi è venuta in aiuto la pandemia: mia figlia, coetanea di Ginia, mi raccontava che i compagni innamorati scappavano di casa; il fuoco in quel momento è la crescita, per questo è una storia sulla libertà più grande: amare chi si vuole”.
Una déjeuner sur l’herbe di pittorica memoria, una manciata di giovani semplici a bordo d’un laghetto, sulla cui superficie – d’un tratto – appare una barchetta con a bordo Amelia (Deva Cassel), coetanea, sofisticata e disinvolta, che in quel momento, senza titubare, si tuffa e dopo qualche metro emerge priva d’imbarazzo lì ai loro piedi – biancheria intima intrisa d’acqua, smalto scuro alle unghie delle mani – chiedendo del vino e una sigaretta. È lei, modella per pittori, la traghettatrice per Ginia nella “bella estate” in cui la fanciulla di campagna cede alla scoperta del primo amore, nell’orgoglio della sua libertà, nella sincerità del suo istinto, nello svelamento del corpo, e lo fa dapprima infrangendo la sua educata timidezza – chiedendo ai pittori: “vorrei che qualcuno mi dipingesse, come fate con Amelia”– e poi lasciandosi portare dal corpo verso i corpi.
Di Amelia, Luchetti spiega che “Pavese la fa apparire e scomparire e nelle ultime pagine le fa dire, quasi contemporaneamente, ‘ti amo’ e ‘sto per morire’. Io cercavo una bellezza tipo Ava Gardner: questo è un film anche sulla rappresentazione, ‘voglio essere dipinta’ si sente dire, cosa che a me ricordava l’idea attuale di mettere le foto su Instagram. Il personaggio l’abbiamo lavorato in maniera subliminale, per sottrazione: lei sembra una dea ma ha le unghie rotte e la giacca lisa. Il rapporto tra Ginia e Amelia è stato tra due identità, e loro stesse hanno trovato un equilibrio reale”.
Per Yile Yara Vianello “con Laura c’è stato prima un lavoro di casting impegnativo, e lì ho iniziato a leggere il libro, poi messo da parte un attimo per cercare punti di contatto con noi persone reali, per poi riprendilo e mettere insieme tutto. I personaggi femminili sono veramente moderni, sembra possano fare tutto, quando non era del tutto vero: la forza di Ginia era il pensare ‘lo voglio fare lo stesso’. Lei ha proceduto più per un istinto che per una consapevolezza”, mentre “è stato molto difficile il lavoro di postura, cercare la finezza e la discrezione delle donne del tempo. E poi anche la parte di dialogo con il libro, per cercare di portare nelle scene qualcosa che non si allontanasse troppo. Un gioco di equilibrio”.
Per Alessandro Piavani: “dar voce a un personaggio è difficile sempre, è un salto nel vuoto, che mi possa somigliare o meno. Quando ho letto il libro mi ha sorpreso l’attualità del testo e allo stesso tempo mi ha spaventato non fosse apparentemente ricco di cose che accadono – tipico di Pavese, forse per questo è poco adattato al cinema – mentre… lì succede tutto. Guido nel libro è brutale, non si legge umanità, dubbio: nel film, invece, ‘ci rimane sotto’, si capisce che la sua aggressività sia dettata da una forte fragilità, fatta di contraddizioni e ipocrisie maschili. Tante delle cose che Guido dice a Ginia non sono così distanti da quelle che anche adesso gli uomini dicono alle donne, penso a tanti fatti di cronaca”.
Nel cast, inoltre Adrien Dewitte, Cosima Centurioni, Gabriele Graham Gasco, Anna Bellato, Andrea Bosca.
In concomitanza con l’uscita al cinema del film, il 24 agosto – prodotto da Kino Produzioni, Rai Cinema, 9.99 Films e distribuito da Lucky Red – esce anche la colonna sonora, firmata da Francesco Cerasi: registrata dal compositore con l’Orchestra di Roma, è ispirata alla tradizione musicale tardo romantica e la sua struttura sonora si rifà in parte al minimalismo, caratterizzato da un forte impianto melodico, creando così un’esperienza musicale coinvolgente e suggestiva. “È una musica ricca di attese, ho una grande passione per gli elementi diluiti nel tempo della composizione, così come nella struttura della colonna sonora stessa – racconta Cerasi – Sono convinto che il compositore debba scrivere sia il suono che il silenzio, sia nel pensiero breve (la singola composizione) sia in quello lungo (l’intera colonna sonora del film). Spero di esserci riuscito”.
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