BERLINO – Dopo aver vinto l’Orso d’Oro 2022 grazie ad Alcàrras, Kino Produzioni è tornata alla Berlinale con il secondo lungometraggio di Carlo Sironi, in corsa a Generation con Quell’estate con Irène. La storia della casa di produzione e del regista romano, che ha esordito alla 76ma Mostra di Venezia con Sole, si intreccia dal 2012, quando l’amministratore delegato Giovanni Pompili ha preso le redini di Kino entrando a gamba tesa nel panorama della produzione indipendente italiana. Al centro dell’operato di Kino, tante coproduzioni internazionali, modus operandi che, ci racconta l’AD in occasione della Berlinale, appartiene a una visione del cinema come intreccio di culture. Pompili ha raccontato a CinecittàNews come nasce il legame con Sironi e cosa significa oggi essere produttori indipendenti.
Con Kino, avete realizzato molti progetti tramite coproduzioni internazionali. Quanto è importante oggi questo strumento per la crescita e il sostegno dei produttori indipendenti?
Le coproduzioni appartengono al DNA di Kino. Vogliamo realizzare film per un pubblico culturalmente trasversale per poter attraversare i confini e le barriere linguistiche. Ho sempre cercato di lavorare a livello internazionale per fare film che rappresentassero anche un’identità europea. Le coproduzioni si sono sempre fatte: tanto cinema italiano è stato coprodotto ad esempio con la Francia, uno scambio continuo tra due cinematografie molto vive. Serve anche oggi ragionare su un cinema europeo. Non è soltanto una questione di finanziamenti. Al centro di una coproduzione c’è la reciprocità. Io produco un tuo film, tu produci un mio film. Per esempio, abbiamo prodotto Sole con la società polacca Lava film, e in seguito noi abbiamo prodotto con loro Silent Land di Agnieszka Woszczynska. Si costruiscono dei legami con i compagni di avventura e si aprono possibilità.
Dunque, le coproduzioni appartengono alla vostra idea di cinema. Al contempo però negli anni sono cresciute nel settore. È diventato più semplice accedere a questo strumento dopo l’entrata in vigore della nuova Legge cinema?
Certo, oggi ci sono degli strumenti che prima non c’erano. Con la Kino produzioni avevamo realizzato già alcuni film prima che ci fossero i contributi alle coproduzione minoritarie, ma solo quando era possibile girarne almeno una in parte in Italia. Nel momento in cui sono degli strumenti si aprono delle possibilità per gli indipendenti. Con l’introduzione del fondo per le coproduzioni minoritarie la Direzione Generale Cinema è andata nella direzione di altri Paesi. Ora anche noi siamo considerati un partner per costruire dei progetti internazionali. Uno strumento che porta ricchezza di sguardo e di possibilità, da una parte e dall’altra. Senza il nuovo fondo di coproduzione in Italia, per esempio, noi non avremmo potuto realizzare Alcarràs di Carla Simòn (Orso d’oro alla Berlinale nel 2022).
Parliamo di Sironi. La storia di Kino e Carlo Sironi si intreccia. Il primo progetto che avete coprodotto è il suo cortometraggio Cargo, nel 2012. Ora siete in concorso a Generation con il suo secondo lungometraggio, Quell’estate con Irène. Raccontami quest’avventura che state affrontando insieme
Sì, siamo cresciuti professionalmente insieme. A quel tempo collaboravo con altre società di produzione a cui avevo proposto di realizzare il cortometraggio che Carlo mi aveva portato. Avevo visto un suo lavoro precedente, Il filo di Arianna, sul rapporto tra una madre e la figlia autistica, un tema che sentivo molto grazie alla mia compagna che lavora con l’autismo. Cargo invece parlava di genitorialità e nel 2012 ero appena diventato papà e diciamo che ci siamo ritrovati, per temi e sensibilità. Avevo già fondato la Kino produzioni ai tempi dell’università, si occupava principalmente di doppiaggio e di documentari per la tv. In quegli anni era rimasta inattiva e ho deciso di amministrarla dandole una direzione chiara, cinematografica e internazionale. Abbiamo fatto Cargo, autofinanziato da me e da Carlo. Dopo la selezione a Venezia lo abbiamo accompagnato in tanti festival e ha vinto molti premi, così siamo rientrati dell’investimento fatto. Abbiamo iniziato da lì e sì, la nostra storia coincide per ora, anche per il percorso internazionale che abbiamo fatto insieme.
Anche in Quell’estate con Irène c’è qualcosa che vi lega a livello tematico?
Quell’estate con Irène è un film di cui sono molto orgoglioso. Racconta un momento del passaggio all’età adulta, quando costruisci le prime memorie da solo. Carlo l’ha ambientato nel ‘97, un periodo storico che abbiamo condiviso. Un’età che conosciamo e che abbiamo vissuto, un momento particolare che non volevamo ambientare ai giorni nostri. È un film che non è sotto la dittatura del plot o di uno storytelling ritmano. Non è un film che deve sottostare al rischio di distrazione: richiede tempo e attenzione.
Perciò, secondo te, in un periodo in cui molto del prodotto audiovisivo è pensato in funzione di un algoritmo, essere produttori indipendenti è una forma di resistenza e fornisce un’alternativa?
Io non sono contro lo streaming. Sono abbonato alle piattaforme, sono un fruitore. Per me è importante però realizzare dei prodotti culturali che abbiano una forte personalità. Non sempre il mercato fornisce la risposta vincente: se così fosse Henry Ford avrebbe dovuto investire sui cavalli e non sul motore a scoppio. Bisogna continuare ad avere il coraggio di non compiacere. La mia non è una posizione giudicante, c’è bisogno di tutti i tipi di prodotto. Bisogna poi sempre avere a che fare con dei sistemi complessi e non prevedibili: non posso fare un film che non viene distribuito in sala o che non trova neanche la sua nicchia di pubblico, bisogna interrogarsi. Ogni film può avere il suo pubblico, e questo pubblico dobbiamo capirlo e definirlo prima di fare un film: chi lo vedrà, come lo promuoveremo e dove verrà visto.
Bisogna seguire il cambiamento della società e delle tecnologie quindi?
Sì, i comportamenti socio-culturali si evolvono e con questo ovviamente anche le forme dei racconti, delle tecnologie e degli accessi alla narrazione. Non dobbiamo spaventarci e irrigidirci. Il cinema è evoluzione ed è sempre cambiato senza distruggere tutto quello che l’ha preceduto. Oggi in Italia abbiamo un film campione d’incassi in bianco e nero. Bisogna continuare ad evolversi, sennò si diventa rumore di fondo. Non si può, ad esempio, ignorare l’emergenza climatica e bisogna rendere i set più sostenibili. Da due anni curo un workshop internazionale organizzato dal Torino Film Lab e sostenuto dall’Unione Europea che si chiama Green Film Lab, e si rivolge proprio ai produttori: possiamo e dobbiamo cambiare la prospettiva con cui si fanno le cose.
A proposito di tecnologia, da produttore hai iniziato a integrare strumenti di Intelligenza Artificiale nel tuo lavoro?
Non mi ci sono ancora avvicinato, anche se in realtà l’AI la usiamo da tanto tempo senza accorgercene. Sicuramente a livello produttivo, per l’analisi dati e per le strategie, può essere interessante e può aiutare. Sul fatto di utilizzarla nella scrittura, invece, ho dei dubbi, il guizzo creativo è insostituibile. Potrei benissimo scrivere un prompt ChatGPT per far realizzare un trailer di un film applicando uno stile in particolare o cose simili, ma non avrà mai quell’intuzione che può avere un montatore di trailer.
Cosa attende Kino dopo questi giorni berlinesi?
Quell’estate con Irène inizia qui il suo percorso internazionale, in Italia arriverà in sala e stiamo definendo il miglior modo di distribuzione. Siamo in montaggio di Polvo Seran di Carlos Marques Marcet con Angela Molina e Alfredo Castro, una coproduzione con la Spagna e la Svizzera con il montaggio di Chiara Dainese. Per il futuro stiamo sviluppando il film di Irene Dionisio scritto con Marco Borromei, Idda, qui al 21° mercato di coproduzione della Berlinale, e ovviamente in cantiere abbiamo altri progetti. È un periodo in cui sono cambiate molte cose, si parla di grande depressione. Ci sarà sicuramente una contrazione delle committenze e c’è più incertezza sui finanziamenti, sia pubblici che privati. Si produrranno meno serie, meno film, meno progetti, magari più belli. Che alla fine è quello che noi abbiamo sempre cercato di fare, concentrarci e fare poche cose ma buone, e un po’ devo dire che ci siamo riusciti. Vogliamo continuare così.
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