Jessica Chastain: “Memory mi ha commossa per la mancanza di cliché sul dramma della demenza”

Il film di Michel Franco in Concorso, protagonista l’attrice con Peter Sarsgaard: l’incontro di due anime la cui meccanica della mente è una coreografia imperfetta, per trauma o per patologia


VENEZIA – L’incontro di due anime la cui meccanica della mente è una coreografia imperfetta, come conseguenza da trauma o come patologia.

Sylvia e Saul – Jessica Chastain e Peter Sarsgaard – sono i personaggi di Memory, film in Concorso, opera numero 8 di Michel Franco.

“Non sapevo di scrivere un film sui ricordi finché non ho finito le prime tracce. Sapevo si sarebbero incontrati a una riunione di classe, ma non sapevo chi fossero o perché. Poi mi sono reso conto di aver in mano il concetto dei ricordi, ma non l’avevo pianificato. Il titolo non poteva che essere Memory”, spiega l’autore messicano al Lido.

Sylvia lavora come assistente sociale, ha una figlia, Anna di 13 anni, lo stesso tempo da cui non beve più, frequentando tutt’ora un gruppo di Alcolisti Anonimi. Sylvia s’intuisce tenere una distanza verso il mondo, in particolare quello maschile: è schiva, di poche parole, finché – dopo aver partecipato a una rimpatriata di compagni di classe – non s’imbatte in Saul, che dapprima la segue e poi lei ritrova fuori casa sua dopo un’intera nottata. Saul soffre di demenza.

“Una delle mie più grandi paure è perdere il controllo: con la demenza non sai chi sei, e questo può essere stimolante per uno sceneggiatore e poi c’è il dramma: non si sa davvero quanto sia diffusa, e quanto non se ne parli perché fa paura. Credo il cinema sia uno strumento straordinario per esplorare situazioni complesse così che il pubblico possa anche parlarne”, continua Franco.

Mentre per Sarsgaard: “questo film è arrivato in modo magico: mio zio durante la pandemia è morto per trauma cerebrale; è stato una persona fondamentale nella vita e la proposta di interpretare qualcuno con la demenza a 52 anni era dunque magia; essere stato con lui mi ha dato tanto per la parte. Ero stato con lui da quanto avevo 13 anni. Poi, mi sono sentito di doverne parlare con qualcuno esperto, per parlarne successivamente a un pubblico: dapprima ho incontrato una persona che cura la demenza e voleva  anzitutto far pulizia sulle falsità sul tema ed è stato davvero utile; abbiamo tante fantasie sulla demenza che non corrispondono alla realtà, la demenza ci paralizza e non volevo questo apparisse nel film”.

Sylvia s’avvicina a Saul non solo perché lo soccorre ma perché il fratello di lui (Josh Charles) con la figlia Sara, prossima a partire dalla città per gli studi e impossibilitata a stare vicina allo zio, le chiedono di prendersene cura: sono sequenze di incertezza, di bugie, di vuoto, di confronto, e di conoscenza non solo della condizione di lui, ma anche di lei, di questa fanciulla adulta, bella e spenta, come patinata da una parete tra sé e la vita. Sylvia, dapprima, rammenta a Saul una connessione tra loro dalle scuole superiori, fendendolo come con una lama su un tema molto delicato: nessun panegirico per rammentargli di quando – lui 17enne e lui 12enne – l’avrebbe sottoposta ad abusi, lo accusa… tanto lui chissà se si ricordi, tanto che lei lo aggredisce dicendo che si dimentica “quando ti conviene”.

L’avvicinamento tra Sylvia e Saul è lento, sospettoso, commovente, misterioso e romantico, e se il presente di lui è l’evidenza di una malattia della mente senza via di ritorno, quello di lei – scopriamo man mano – è la conseguenza di un passato intimo, famigliare, fragilissimo, in cui le dinamiche tra madre e figlia, tra sorella e sorella, prendono la forma della precarietà e si frastagliano al limite della rottura.

“Quando ho letto la sceneggiatura ero entusiasta fosse di Michel. Dopo la pandemia e dopo il MeToo è stata fondamentale, perché non era una risposta a questo: ero commossa per la mancanza totale di cliché sul dramma della demenza. Sylvia si crea uno scudo che la esclude dal mondo e smette di vivere, finché non comincia una relazione con qualcuno scollegato, e che la vede in ogni momento come una rinascita. Michel non scrive per vendere ma per commuovere e questo film può essere un’esperienza catartica per il pubblico”.

“Sono un cineasta che ama gli attori: quando scrivo sto da solo e penso a chi potrà rendere il personaggio migliore di quello che è sulla carta”, spiega Franco. “Sapevo che Jessica conoscesse il mio lavoro, questo mi ha onorato, e poi siamo entrati in contatto e abbiamo capito ci fossero delle premesse. Per la profondità maschile ho pensato che Peter fosse adatto: dopo aver presto un caffè con lui, gli ho chiesto di mostrarmi la pancia e appena ho visto il pancione ho detto ‘avrai la parte’, ma solo dopo aver camminato per ore”. Un episodio aneddotico a cui Sarsgaard da seguito raccontando: “vivo a New York dal ‘93 e non credo di aver mai avuto un incontro così; abbiamo camminato moltissimo e ho mostrato tutto quello che amo della città e non c’è nulla di meglio – per conoscere una persona – che conoscere ciò che ama della propria città”.

“Io amo lavorare con Peter e ha il mio amore come artista”, commenta Chastain, per cui “a volte un attore può cambiare la sceneggiatura per adattarla a sé – e viceversa – e lui cambia forma per il progetto”.

“Ho scritto questo film dopo Sundown, un’altra crisi esistenziale, e riconosco a mia sorella il merito di avermi indicato di andare in una direzione opposta, non buia, e aveva ragione, è uscito un film migliore: la sfida è non ripetersi mai. Ma cerco sempre di essere del tutto onesto. Cerco di fare un film all’anno, non perché sia una macchina ma perché il film è un mezzo espressivo personale: se mi trattengo troppo su una sceneggiatura rischio di non riflettere il mio momento specifico. Non ho mai un pubblico a cui mi indirizzo, non ho un progetto di carriera, vorrei solo fare buoni film, e già questo è complesso: il Paese in cui desidero di più fare un film è il Messico, il mio Paese, ma non è ancora successo”, continua l’autore.

Memory – nel cui racconto visivo s’innesta a più riprese il brano musicale A Whiter Shade of Pale (“We Skipped The Light Fandangola strofa più famosa), a portare per mano con l’armonia delle note la disarmonia armonica della storia di queste due persone, poli e nucleo al contempo – è un film coraggioso al Lido anche per la presenza alla Mostra dei suoi interpreti nel momento dello sciopero hollywoodiano, questione su Jessica Chastain ammette: “ero agitatissima di essere qui oggi, anche alcune persone del mio entourage mi hanno sconsigliata: sono fortunata a fare il mio mestiere, ci dicono di stare zitti per preservare future possibilità di lavoro. Il settore ha permesso abusi e salari ingiusti. I produttori che vedete qui con me hanno chiesto alla Alliance of Motion Picture and Television Producers che gli attori abbiano contratti equi e possano partecipare al processo creativo, e speriamo che la AMPTP torni al lavoro dei negoziati quanto prima”.

Infine, fatto presente all’attrice che appena prima del red carpet ufficiale del film sul tappeto rosso è annunciato un flash mob a supporto della prima Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, lei sulla questione commenta: “penso sia un momento fondamentale quello degli ultimi anni per la nostra società, è importante riconoscere la violenza che accade ogni minuto contro le donne nel mondo. È una mia passione la protezione delle donne, è un principio di vita, cerco di usare la mia notorietà per sostenere un clima di lavoro positivo, sono a favore di qualsiasi iniziativa in favore”.

di Nicole Bianchi 

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08 Settembre 2023

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