Il mondo di Cianca e di Sergio – pardon, di Sergej – inizia e finisce nello spazio ristretto che separa l’ingresso dell’Ufo, discoteca affollatissima e alla moda, dalle transenne che controllano gli accessi. Per una sera, sono i signori e padroni della felicità (o dell’infelicità, perché no) delle persone. E di questo loro potere sono estremamente consapevoli: distribuiscono favori con la stessa tranquillità che hanno i politici di lungo corso; respingono, rimbalzano, dirigono il traffico delle file, vip e meno vip, e sono pronti a menare le mani, ché non si sa mai.
Intanto, dal loro angolo di esistenza, parlano. E parlano di qualunque cosa. Sociologia, cospirazioni, amore, attualità più o meno stretta. Fanno i buttafuori, e si confrontano come i filosofi di un’altra epoca, vestiti di nero, con le scarpe lucide e la cravatte ben annodate. Hanno passati oscuri, indecifrabili, che gli danno un’aria misteriosa e melanconica. Cianca guarda Sergej, e Sergej non guarda Cianca. Sono perfetti insieme. Si bilanciano, si completano, sono l’uno l’estensione dell’altro. La loro vita, che a una prima occhiata può sembrare piatta e ripetitiva, in realtà è una grande avventura, e loro sono sia i cattivi che gli eroi della loro storia.
Lo sanno, ci pensano; forse non se lo dicono – non in modo così diretto. Ma si vede che qualcosa passa dietro quegli occhi tristi. Il capo dell’Ufo – «fatemi immagine», dice – non ha un nome; è il capo e basta. E quando Cianca e Sergej lo incontrano si trasformano in due soldatini sull’attenti: sì, capo; certo, capo; come no, capo; come dici tu, capo. È tutto assurdo e surreale. E proprio per questo bellissimo e verissimo. L’Ufo diventa un campione da studiare e da tenere d’occhio, una lente d’ingrandimento su un’umanità che non vuole altro che divertirsi e che però è condannata ad aspettare in fila, a volte solo per sentirsi dire: no, niente, stasera è pieno.
Cianca e Sergej sono una via di mezzo tra Cerbero e Caronte: un po’ ringhiano, e un po’ se ne fregano. Sono due maschere, due ombre del teatro cinese: si muovono pochissimo e quando lo fanno sono rigidi, come se i loro muscoli avessero perso qualunque elasticità. I buttafuori, dopotutto, non sono più felici degli altri; sono condannati, per loro stessa natura, a una doppia disperazione: quella di chi non solo deve negare ad altri il divertimento, ma deve negarlo innanzitutto a sé stesso.
Cianca e Sergej hanno la faccia, e la voce e il tono, di Valerio Mastandrea e Marco Giallini. Sono stati i prototipi di una certa produzione televisiva italiana interamente affidata e sostenuta dalla buona scrittura. Perché Buttafuori, la serie, è fatta con pochissimo; anzi no, meno che pochissimo, figuratevi, è fatta con niente. Eppure funziona, è divertente, ha una freschezza che ancora oggi, quasi vent’anni dopo la prima messa in onda, resiste e supera il confronto con altri titoli nostrani, più moderni per età e più ricchi per risorse.
Oltre che di Mastandrea e Giallini, il merito è pure di Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo, che Buttafuori l’hanno scritta e diretta (Ciarrapico). Wilder, antenata di Wildside, l’aveva sviluppata per Rai3. Andarono in onda appena una manciata di episodi, furono abbastanza però per rendere questa serie un cult tra gli appassionati. Cianca e Sergej sono due disperati, due come tanti altri, e ciononostante hanno una noncuranza granitica che li rende, di fatto, due protagonisti eccellenti della nostra serialità.
Due sagome quasi immobili, con le mani perennemente allacciate davanti al cavallo dei pantaloni e le spalle dritte, e una voce sempre uguale, ronzante, bastano per creare quella che è stata l’apripista di altre storie. Una su tutte, Boris. Qui siamo oltre la fantacritica; siamo tra i più grandi e più bravi, e una vita da protagonisti, alla fine, non l’hanno fatta solo Cianca e Sergej, ma pure quelli che li hanno interpretati, Mastandrea e Giallini, coppia pazzesca fin dai tempi de L’odore della notte di Claudio Caligari, e Ciarrapico, Torre e Vendruscolo: tre che hanno rivoluzionato la commedia italiana.
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