Candidato agli Oscar 2024 nella categoria animazione, accanto a un gigante come Hayao Miyazaki, il regista spagnolo Pablo Berger è alla sua prima prova con la tecnica animata, ma già è sicuro che questo sarà il suo futuro. Con Robot dreams, in sala dal 4 aprile con I Wonder Pictures, Berger racconta di aver scoperto “nuovi mondi”, e assicura di non essere l’unica persona a pensarla così (tra tutti, un altro gigante come Guillermo del Toro). Tutto ha avuto inizio dall’omonima graphic novel di Sara Varon, da cui Berger trae la storia d’amicizia tra un cane e il suo amico robot, e a cui però aggiunge molto del proprio vissuto personale e un’idea di cinema che passa prima di tutto per immagini e suoni. Il film, infatti, non presenta dialoghi, ed è straordinario accorgersene molto dopo l’inizio della storia. Perché le giornate di DOG e Robot si susseguono senza sforzo alcuno, raccontate per gesti, suoni della città – è New York la grande protagonista sempre in scena – e canzoni pop che fungono da collante tra diverse sequenze sopperendo a molti dialoghi. Vicino nei modi a una graphic novel animata, ma con tutta l’arte di una regia e una composizione pensata nel dettaglio dal suo regista, Robot dreams passa dallo slice of life, abitato da momenti buffi e sereni, a sferzate improvvise verso un realismo emotivo che lascia il segno. La storia di DOG e Robot ha colori e canzoni brillanti, che incorniciano gli eventi, ma il vissuto interiore dei protagonisti è quanto mai vero e vicino allo spettatore. Cane e robot si vogliono bene, sono amici e si prendono cura l’uno dell’altro, ma la vita segue molte vie, e a volte bisogna imparare a dire addio con il sorriso. Berger ha messo molto di sé in questo adattamento, soprattutto l’idea, come ci racconta lui stesso, che la vita sia un mix di generi “tra commedia e tragedia”.
Robot dreams è il tuo primo film d’animazione e sei già stato candidato all’Oscar accanto a un maestro come Miyazaki. Cosa ti ha spinto verso questa tecnica?
Robot Dreams è il mio quarto film e fino ad ora avevo realizzato solo live-action. Mai mi era capitato di pensare di realizzare un film d’animazione. Nel 2010 ho però scoperto la graphic novel di Sara Varon, Robot dreams, trovandola fantastica. Otto anni dopo mi è ricapitata in mano e rileggendola sono scoppiato in lacrime. Da poco avevo perso un caro amico e mia madre, e questa storia, oltre a divertire, emozionava toccandomi molto da vicino. Ho pensato che se era successo a me, poteva accadere anche agli spettatori. La graphic novel mi ha portato verso l’animazione.
Il legame personale con il racconto di Sara Varon spiega anche i lati più agrodolci del film
Sì, è un film con molti sentimenti diversi. Per me è come la vita, un mix di generi tra commedia e tragedia.
Robot dreams non presenta dialoghi e il racconto prosegue per immagini e suoni, come già avevi fatto nel tuo film Blancanieves. Cosa cerchi in questo cinema senza parole?
Blancanieves è stata una grande esperienza e ho avuto una risposta positiva del pubblico. Volevo dunque realizzare un’altra opera come quella, ma allo stesso tempo completamente diversa. Quando ho trovato Robot dreams ho capito che era la storia giusta. Poi, io sono un cinefilo, amo il cinema degli anni ’20 e credo che ciò che rende speciali i film siano prima di tutto le immagini. Da questo punto di vista mi sento un po’ un terrorista cinematografico.
Anche Denis Villeneuve la pensa così: di recente ha anche dichiarato che la vicinanza con la tv avrebbe riempito di troppe parole il cinema
Sì, è vero, io sono stato molto felice che abbia fatto quella dichiarazione e che sia diventata subito virale, perché sono d’accordo con lui. Il cinema si costruisce per immagini. Tutto il resto viene dopo.
Robot dreams è anche una lettera d’amore a New York, protagonista indiscussa del film assieme al robot e al cane. Anche questo è un elemento personale aggiunto al materiale di partenza?
Nella graphic novel tutto avviene in un luogo chiamato “the City”. È stata una mia decisione inserire nella storia New York, dove ho vissuto per dieci anni. È una New York che non esiste più, quella degli anni ’80, quando era ancora la capitale del mondo. È una stilizzazione della città, una New York realistica e anche un po’ sognata. Per me il cinema è come una macchina del tempo. Tutti i miei film sono in costume, e penso sia straordinario che il pubblico paghi un biglietto e con Robot Dreams si ritrovi in una New York che non può più trovare altrove.
Tra i tanti omaggi in quasi ogni inquadratura appaiono le Torri Gemelle sullo sfondo.
Quando mi trovavo a New York ho vissuto a Downtown e andavo a scuola alla NYU. Ogni giorno camminavo per strada e vedevo le Torri Gemelle ovunque mi trovassi. Sono una parte importante delle mie memorie di allora, quindi dovevano esserci. Ho lasciato New York prima dell’11 settembre 2001 e volevo creare un omaggio che fosse anche una metafora visiva.
Quando nel film vediamo il robot sognare, i suoi sogni sembrano veri e propri cortometraggi. A un certo punto sembra anche uscire dallo schermo e dal film stesso. Qual è per te il legame tra cinema e sogni?
Per me il cinema è prima di tutto un’esperienza sensoriale, non intellettuale. Quindi cinema e sogni convivono. Quando scrivo un film mi lascio guidare dal subconscio, vado a caccia di immagini dentro di me. L’origine dei miei lavori è sempre legata ai sogni che faccio e vivo.
Ora che sei anche un regista d’animazione qual è la tua opinione sul ruolo dell’Europa e delle sue diverse industrie nello sviluppo di questa tecnica?
Credo che si stiano facendo importanti passi avanti. La Francia può essere un riferimento per l’animazione e la Spagna negli ultimi 15 anni è cresciuta tantissimo. Ben tre film d’animazione spagnoli, tra cui Robot dreams, sono stati nominati all’Oscar di recente. C’è un movimento in corso, e quello che è più sorprendente è che molti di questi lavori siano disegnati a mano in tecnica tradizionale, o realizzati in stop motion. Ci sono film straordinari come La mia vita da Zucchina. In America ormai non si trovano più film d’animazione in 2d dopo il successo Pixar, che ha portato a un’estetica un po’ troppo perfetta secondo me. L’arrivo di Spider-man: into the Spiderverse ha cambiato però molte cose, mostra un modo diverso di usare il 3d, aggiungendoci una sorta di imperfezione che viene dalla tecnica tradizionale. È una strada da seguire.
Dunque, ti rivedremo all’opera con l’animazione?
Assolutamente sì. All’ultimo festival di Annecy ho incontrato Guillermo del Toro e abbiamo parlato di live-action e animazione. Come dice lui, quando provi l’animazione scopri che si apre un nuovo mondo, e non vuoi più tornare indietro.
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