“La mia idea di un buon placcaggio è quando la vittima si risveglia lungo i bordi del campo e sente rintronare nella sua testa i fischi di un treno”. Questa cinica frase di Jack Tatum, glorioso campione di football americano della scorsa generazione, pare la più corretta per introdurre Zona d’ombra – Una scomoda verità (Concussion), seconda pellicola del newyorchese Peter Landesman, in uscita a fine mese distribuito dalla Sony.
Dopo una buona carriera nella carta stampata (si segnalano al suo attivo almeno un buon romanzo di esordio in gioventù ed una decina di reportage di guerra) l’ambizioso Landesman, alla soglia della maturità, scopre il cinema come medium ideale per portare avanti il suo percorso di autore impegnato a tutto tondo. Non a caso dopo aver raccontato nel precedente Parkland l’agonia di John F. Kennedy, nel suo prossimo progetto Felt tenterà di riscrivere tutto il backstage della vicenda Watergate.
Una delle costanti del cinema civile di Landesman, ereditato dalla sua vita artistica precedente, sta nel raccontare l’America attraverso la ricerca di curiosi punti di vista che abbiano la forza di amplificare i paradossi della sua già complessa società.
In Zona d’ombra lo spunto è curioso. Un patologo di origine nigeriane di mezza età, che da buon idealista ha scelto l’America come terra del suo riscatto personale, scopre che i campioni di football americano della sua città, l’operaia Pittsburgh, tendono ad impazzire a causa dei traumi celebrali subiti nel corso della loro carriera. Scontri durissimi che portano ad una demenza precoce o ad una altrettanto dolorosa depressione. Ovviamente questi studi scateneranno la contro offensiva della NFL, la ricca lega che organizza il campionato nazionale di football americano, che si attiverà in una tentacolare rete di lobby per evitare che tale ricerca possa limitare il potere della federazione.
La NFL (acronimo di National Football League) è una vera e propria superpotenza dell’entertainment e non potendo rischiare di vedere minato alla radice lo sport più amato oltreoceano, non ha nessuno scrupolo nel difendere questa perfetta macchina macina soldi, senza mostrare alcuna sensibilità verso questa generazione di campioni in declino e facendo subito partire la macchina del fango nei confronti del nostro protagonista.
Protagonista è un Will Smith ormai borghese – caratterizzato da un candore e da una solerzia al limite dell’antistorico – che sembra, per il suo idealismo, erede diretto dei personaggi che lo videro protagonista per Gabriele Muccino una decina di anni fa. Il film ha una messa in scena molto tradizionale lasciando così sedimentare nel suo spettatore tutti gli elementi utili per poter cogliere una lettura profonda e dettagliata di questa dolorosa vicenda.
Il film procede quindi didascalicamente passaggio dopo passaggio, non cambiando mai passo, senza colpi di scena e lasciando nel finale troppo spazio alla retorica. Anche se nella sequenze costruite con materiale di repertorio, libera lo sport nazionale a stelle e strisce da ogni qualsiasi prospettiva epica.
Un tratto lo avvicina al recente e fortunato Il caso Spotlight. Questi due film di inchiesta, che hanno l’ambizione di denunciare una vicenda umana drammatica e dolorosa, non riescono completamente a raggiungere lo scopo perché nella messa in scena di entrambi i film prevale la volontà di esaltare l’idealismo zelante degli outsider più della sensibilità verso le vittime, che in entrambi i casi perdiamo per strada prima dell’ultimo atto della vicenda.
Il football americano non è riuscito mai a sfondare in Europa (solo la pallacanestro ha scritto alcuni capitoli della sua storia nel vecchio continente) e questo non aiuterà certo la diffusione del film in queste settimane primaverili. Ma resta da segnalare questa curiosa nota che sarà gradita ai telespettatori degli sport americani che amano fare nottata sui canali satellitari. Potranno sentire la voce di uno dei loro beniamini: il telecronista di Sky Sport Flavio Tranquillo.
Il film è prodotto da Ridley Scott che, viste anche le derive decisamente epigonali delle sue ultime fatiche dietro la macchina da presa, si rivela un onesto e sensibile professionista – forse di più – dietro la scrivania.
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