Spesso vado nelle scuole secondarie di primo e secondo grado a incontrare i ragazzi e quasi ogni volta emerge una domanda quando si arriva a parlare di cinema: “ma voi lo conoscete Federico Fellini?” La risposta è triste e scioccante: nella stragrande maggioranza dei casi è un’alzata di spalle o un roteare di occhi al cielo o un “mah” dipinto rozzamente sulle labbra. È un peccato, anzi di più: un processo di oblio collettivo, doloroso che ci rende più poveri. Dovremmo riportare Fellini nelle aule, parlarne, farlo amare per quel tesoro della nostra cultura qual è e che altrimenti rischia di diventare solo un glorioso pezzo da museo.
Le occasioni sono ovunque. Come per esempio i 70 anni che compie uno dei suoi capolavori più brillanti: I Vitelloni, uscito la prima volta nelle sale il 17 settembre 1953.
I “Vitelloni” sono vitelli troppo cresciuti. Descrizione piuttosto accurata degli (anti)eroi di questo melodramma di Fellini innervato di comicità nera, una specie di romanzo di formazione al contrario. Superati i 30 anni, ma vivendo ancora a casa con le loro madri, questi “ragazzi” si aggirano per la loro insipida città di mare nell’Italia degli anni ’50, sognando di fuggire, ma forse per i troppi bicchierini bevuti davanti a un bar, troppo stanchi per alzare il loro sedere sempre più floscio.
Realizzato l’anno prima del trionfale La Strada, e dopo il suo primo vero film da regista (Lo Sceicco Bianco), I Vitelloni vede Fellini interpretare il poeta di provincia. In questo classico del cinema in bilico tra commedia, dramma e ferocia mancanza di sentimentalismo, Fellini cattura la pomposa vanagloria di uomini che si attardano nei bar e sui tavoli da biliardo a sparlare tutto il tempo.
I Vitelloni appartiene al filone neorealista della sua carriera, ma già si intuisce quanto se ne sia discostato per trovare un percorso personale che colpisce ancora oggi per la sua unicità e audacia narrativa. Nelle quasi due ore di durata non succede granché: l’elezione di “Miss Sirena”, il carnevale e un numero di music-hall sembrano essere le uniche distrazioni; per il resto, il tempo sembra ciclico, con il ritorno delle stagioni che non porta alcun cambiamento.
La noia, alimentata da una partita a biliardo e, soprattutto, da progetti irrealizzabili di partenza (per il Brasile, per una vita da acrobata), è rotta solo dalle azioni delle donne: Sandra che sviene perché incinta, la sorella di Alberto che se ne va, Sandra che scompare.
Ogni festa è seguita da una caduta che smentisce la dimensione gioiosa, quando non sono gli elementi (la tempesta, il vento) a fare da contrasto.
I Vitelloni è la prova del genio di Fellini come narratore. La sua poetica dell’immagine intreccia inquadrature sature di primi piani e montaggi rapidi durante i festeggiamenti, contrapposta a riprese ampie e vuote delle strade e della spiaggia deserta. In questo vuoto, i personaggi sembrano smarriti; al deserto del luogo corrisponde il vuoto di queste persone, incapaci di prendere in mano il proprio destino.
I cinque vitelloni entrano in scena intonando sguaiatamente la canzone degli alpini. Si sono lasciati alle spalle i trent’anni e non si sono messi d’accordo su come imbastire non tanto il futuro, ma pure il presente: buoni a nulla, ladri di giornata, sbruffoni, flemmatici e baldanzosi, zotici eppure in qualche modo amabili. Amici miei ante-litteram, ma più patetici.
Si siedono al caffè, guardano il mare, lasciano che le ore si sfilaccino sotto i loro occhi. Aspettano. Aspettano. Aspettano. Ma cosa?
Un donnaiolo Fausto (Franco Fabrizi) che da seduttore spensierato deve accasarsi, un commediografo andato a male (Leopoldo Trieste), un mammone pomposo a cui Alberto Sordi dà carne e sangue in maniera proverbiale, uno che ama cantare e basta (interpretato dal fratello del regista stesso) e infine Moraldo (il qui malinconico Franco Interlenghi) che sospetta che oltre il bordo della propria cittadina e delle proprie comodità possa esserci qualcos’altro: la vita, forse.
Nella sua caratteristica miscela di naturalismo caricaturale e amore indulgente, Federico Fellini mette insieme episodi della squallida, grigia e angusta esistenza dei suoi protagonisti: sfilate e visite al cinema, matrimoni e balli di carnevale, allegria malinconica e tragedie burlesche, speranze immaginarie per un domani migliore – e una sola, concreta partenza verso l’incerto futuro.
L’ambientazione è un altro personaggio del film. È nella finzione scenica l’amata/odiata Rimini di Fellini, rappresentata più come un grande paese, spesso desolato, sporco, ventoso e freddo nelle notti d’inverno, è ricostruita internamente a Cinecittà. Le scene degli esterni vengono girate altrove: tra Ostia (il lungomare), Viterbo (le strade, piazze e la stazione), Firenze (la parte del carnevale e della rappresentazione teatrale dove recita Sergio Natali, presumibilmente realizzata nel Teatro della Pergola).
Dietro un’opera che diventa “classico” non sempre c’è un percorso lineare. Una strada facile. Anzi.
I Vitelloni (Leone d’argento alla Mostra di Venezia 1953), prima di entrare nei circuiti internazionali diventando campione d’incassi (fu candidato cinque anni dopo all’Oscar come miglior sceneggiatura) e garantendo a Fellini il riconoscimento a pieno titolo di regista e ad Alberto Sordi di attore, inizialmente fu accolto con freddezza. E ancor prima di venire alla luce dovette conquistarsi il suo posto nelle sale.
Come disse lo stesso Fellini in varie interviste: “I Vitelloni non voleva distribuirlo nessuno, andammo in giro a mendicare un noleggio come dei disperati. Mi ricordo certe proiezioni allucinanti. I presenti, alla fine, mi lanciavano occhiate di traverso e stringevano dolenti la mano al produttore Pegoraro”.
Anche il titolo fu messo in discussione: “Un’altra distribuzione non voleva il titolo I Vitelloni. Ci consigliavano: Vagabondi! Con il punto esclamativo. Dissi che andava benissimo, però suggerivo di rafforzare l’invettiva con un vocione da orco che sulla colonna sonora tuonasse: Vagabondi!” ironizza Fellini.
E infine la battaglia per Alberto Sordi. L’anno prima, Sordi aveva girato Mamma mia, che impressione! diretto da Roberto Savarese. il film era stato un flop sonoro e l’attore era particolarmente mal visto sia al pubblico che ai professionisti della distribuzione. Anche Lo sceicco bianco, all’epoca, non ottenne riconoscimenti particolarmente calorosi, né da parte del pubblico, né da parte della critica. Fellini non si fece scoraggiare e portò avanti la sua crociata per averlo nel film, arrivando a un compromesso assurdo: nelle prime venti copie di I vitelloni, nei titoli di testa, il nome di Sordi non c’è. Così come nei primi manifesti per l’uscita del film. “Cioè, alla fine, hanno ceduto a farmelo prendere a patto però che collaborassi a far sapere che non c’era”.
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