BERLINO – Il cineasta sudcoreano Hong Sang-soo torna in competizione alla 75ª edizione della Berlinale con il suo nuovo lavoro, What Does That Nature Say To You.
Il film verrà distribuito in Corea nella prima metà dell’anno e avrà la sua anteprima mondiale durante l’evento.
La trama segue la giornata imprevista di un poeta che accompagna la sua compagna a casa della sua famiglia. Durante i pasti condivisi, il giovane intrattiene conversazioni profonde con i genitori di lei, momenti che lo porteranno a vivere un’esperienza indimenticabile. L’opera esplora il tema delle dinamiche relazionali e il peso delle emozioni inespresse, con un cast composto da Ha Sung-kyu, Kwon Hae-hyo, Jo Yoon-hee, Kang So-i e Park Mi-so. Hong Sang-soo non si limita alla regia, ma assume anche i ruoli di produttore, sceneggiatore, direttore della fotografia, montatore e compositore, con il supporto della direttrice di produzione Kim Min-hee, sua storica collaboratrice in titoli come Right Now, Wrong Then e Hotel by the River.
Il regista è una presenza consolidata al Festival di Berlino, partecipando per il sesto anno consecutivo. Tra i suoi successi ricordiamo On the Beach at Night Alone, che nel 2017 ha valso a Kim Min-hee il premio come migliore attrice, e The Woman Who Ran, vincitore del riconoscimento alla miglior regia nel 2020. Nel 2021 Introduction ha ottenuto il premio per la miglior sceneggiatura, mentre l’anno scorso The Novelist’s Film si è aggiudicato il Grand Jury Prize.
La distribuzione nelle sale italiane del film sarà curata da Minerva Pictures, che aveva già portato sul grande schermo A Traveler’s Needs, interpretato da Isabelle Huppert e premiato con l’Orso d’Argento – Gran Premio della Giuria alla Berlinale dell’anno precedente.
“Non parto mai con l’idea di lanciare un messaggio messaggio – dice il regista in conferenza – Ad esempio, non penso: “Voglio dire questo messaggio, quindi uso questo materiale”. Non faccio così. Per me, ciò che viene dato è molto importante. Ero a una piccola festa di campagna con l’attrice Kang Soyi. Con gente che vive in un posto molto tranquillo e piccolo. Lei mi ha detto che suo padre allevava galline e ho pensato che sarebbe stato carino essere invitato”.
L’autore, insomma, sembra riluttante a voler dare al film un preciso significato: “Ogni dettaglio nel film, in un certo senso, posso dire di averlo voluto, ma non nel senso che serva come strumento per esprimere un’unica idea. Li accetto come un pezzo, poi un altro pezzo, poi un altro ancora, e alla fine questi pezzi si uniscono e diventano un tutto. Non sono particolarmente propenso a dire perché ho fatto questo film, a dire che il mio film intende significare qualcosa di specifico.
Perché in realtà ci sono molte posizioni, molti stereotipi, molte espressioni non verbali, e tante cose che si mescolano dentro questo lavoro. Se scegliessi una sola linea interpretativa, allora potrei parlare di una cosa sola, ma non era quello che volevo fare. Volevo mettere insieme tutte queste cose, in qualche modo intrecciate, così che una persona possa attraversare il film e cogliere certi elementi, arrivando a una certa interpretazione, mentre un’altra persona può cogliere elementi diversi e arrivare a un’apprezzamento molto diverso. Questo è ciò che voglio realmente”.
La concezione di cinema di Sang-soo è particolare e molto influenzata dal concetto di “dato”: “In un certo senso, in modo positivo, reagisco al materiale, – spiega – a ciò che mi viene dato. Non avevo intenzione di creare un’atmosfera piena di dialoghi o qualcosa del genere. Forse una cosa molto importante per me è proprio l’inizio. Più passa il tempo, più lo apprezzo.
Apprezzo questo processo. Ad esempio, se devo fare un paragone: “Okay, questo attore è molto famoso, molto potente e molto talentuoso, quindi voglio lavorare con lui”. Va bene, è un tipo di approccio, un tipo di intenzione. Ma io non vedo molto valore in quel tipo di processo. Quello che vedo, quello che apprezzo, è più simile a questo esempio. Ciò che mi viene dato è sempre inaspettato e molto bello. Anche se mi sforzo molto di definire qualcosa, il giorno dopo non riesco a mantenerlo facilmente.
Per alcune persone, creare definizioni è molto utile, ma per persone come me è inutile. Invece, persone come me dovrebbero semplicemente buttarsi, lavorare, creare, produrre qualcosa, senza perdere altro tempo a cercare di definire tutto. Ho rinunciato da tempo all’idea che si debba sapere qualcosa in modo assoluto per poter fare un buon lavoro. Credo nel processo.
Certo, ci sono alcune cose che bisogna sapere, forse. Ma poche cose, non un’unica idea, una meta precisa, un grande concetto o un effetto forte. Queste cose mi vengono date, io semplicemente le sento e le afferro, poi le posiziono da qualche parte. E poi credo nel mio processo: ogni giorno mi butto, e in qualche modo queste cose iniziano a connettersi tra loro”.
Se vogliamo, un’idea di cinema assolutamente poetica, e in linea con il tema della pellicola.
Ma non significa che sia un processo facile. “A volte – chiude – mi sento disperato, ma con piacere. Forse mi piace mettermi in quella posizione: molto disperato, ma senza il rischio di fare del male a qualcuno, cose del genere. Solo disperato. E nel frattempo ho acquisito alcune abilità. Ho riflettuto sull’atteggiamento che dovrei avere nel rispondere a certe cose, eventi, stereotipi, e così mi butto”.
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