PESARO – Con la copia restaurata a cura di Cinecittà e del Centro Sperimentale di Nuovo Cinema Paradiso e con un omaggio al suo autore, Giuseppe Tornatore, si conclude la Mostra di Pesaro. A Tornatore, che con quell’opera seconda del 1988 vinse un Oscar, il festival ha dedicato il classico volume Marsilio curato da Pedro Armocida ed Emiliano Morreale, che contiene anche una lunga intervista con il regista siciliano, oltre a un interessante capitolo in cui Tornatore, da sempre un cinefilo agguerrito e curioso, elenca i film della sua vita, da Gli argonauti di Don Chaffey a Toro scatenato di Martin Scorsese. “Dovevano essere dieci ma ne ho indicati molti di più e altri ancora avrei aggiunto”, spiega Peppuccio. Che rivela anche di avere una saletta di proiezione privata “ha 15 posti con impianto sia digitale che in 35 mm. La uso per lavorare, perché il monitor mi sembra poco affidabile, ma anche per rivedere film che amo o mostrarli ai miei amici. Una o due volte alla settimana vado al cinema ma sono ancora molto legato al dvd e al blu ray. L’ultimo titolo in dvd che ho visto è Il ragazzo sul delfino di Negulescu, un film mediocre con una Sophia Loren mozzafiato, mentre al cinema ho visto Rapito. Amo vedere tutti i tipi di film, anche quelli che so non essere buoni. Tutti i film che esistono mi stanno simpatici perché per conquistare il diritto di esistere devono combattere molto”.
Eclettico, appassionato dei generi, “nato vecchio” perché è l’ultimo ad aver lavorato con i grandi produttori come Goffredo Lombardo e Franco Cristaldi, un alieno nel cinema italiano. Sono tante le definizioni circolate nella tavola rotonda di Pesaro, con interventi di Giulio Sangiorgio, Paola Casella, Sergio Toffetti, Ninni Panzera.
Come ricorda la genesi di Nuovo Cinema Paradiso?
Quel film nasce da una grande emozione da me vissuta nel 1977 quando fui chiamato da un esercente per il quale avevo lavorato come proiezionista per smontare le attrezzature di un vecchio cinema che doveva chiudere. Io lavorai diversi giorni insieme a degli operai che smontavano lo schermo e mi nacque l’idea che ho incubato per dieci anni.
Che effetto le fa essere oggetto di studio da parte della critica con un volume come questo di Pesaro?
Credo che questo libro, che devo ancora leggere, possa essere un manuale che mi aiuti a capire me stesso. Io mi muovo come un cieco, percorro strade che non vedo e i critici spesso mi segnalano riflessioni a cui non avevo pensato, trovando elementi di coerenza tra i miei film che invece io ho sempre vissuto come l’uno il tradimento dell’altro. Ho il complesso dell’opera prima.
In che senso?
Perché cercare sempre di fare un film diverso dal precedente ti regala l’illusione di essere alla prima opera, con la timidezza e la paura, che ti aiutano ad essere più attento. Questo andare a zigzag mi fa sentire non totalmente adeguato e costretto a studiare, a esercitare al massimo le mie capacità.
Ennio è un film molto importante che ha stupito tutti per la qualità straordinaria e lei stesso per il suo grande successo.
Cominciai a lavorare a Ennio sette anni prima di finirlo e, purtroppo durante la lavorazione, Morricone è venuto a mancare. E’ stato doloroso e complesso, anche perché la fase del montaggio è avvenuta durante il lockdown e dunque a distanza. Il documentario ha avuto una storia complicata e un successo inaspettato, in un periodo in cui la gente al cinema non ci andava più e i contagi stavano di nuovo crescendo. Era un documentario anche lungo, fuori dalla durata di un documentario canonico ma che ha affascinato.
Lei ama il documentario e lo ha spesso praticato.
Lo amo molto, ti dà una libertà diversa. Da ragazzo giravo con le prime cineprese quello che mi capitava. Compravo un po’ di bobina di pellicola, mi guardavo intorno e andavo a riprendere i pensionati all’ufficio postale, oppure una processione o ancora scene di vita quotidiana. Erano lavori aperti. Anche per Ennio avevo scritto un trattamento ma mi sono lasciato influenzare dalla mia amicizia con Ennio Morricone. Nella fiction questo non lo puoi fare, la sceneggiatura è decisiva, puoi cambiare qualcosa ma il film è quello.
Adesso sta andando verso la serialità con il progetto di riprendere Nuovo Cinema Paradiso.
La mia unica esperienza di serialità, per ora, risale a quarant’anni fa. Quando ho fatto il mio primo film, Il camorrista, ho girato anche la serie tv, ma poi non è mai andata in onda per disavventure giudiziarie. Adesso hanno deciso di restaurarla e l’ho completata, andrà su una piattaforma. Il progetto di serie ispirato a Nuovo Cinema Paradiso mi è stato suggerito da un produttore molto bravo, ma al momento mi sembra che sia su un binario morto. E’ un’idea bizzarra che in un primo momento mi aveva lasciato perplesso, faticavo all’idea di dover ritornare su storie e personaggi in qualche modo alle mie spalle, poi invece ho trovato una curiosità. Adesso sto lavorando a due nuovi progetti ma non dico nulla perché ho scoperto a mie spese che parlarne prima non li fa realizzare.
Cosa pensa invece dell’idea di rifare Il Gattopardo?
E’ un progetto azzardato, mi auguro che possa avvicinare a questa storia chi non conosce il film di Visconti. Immagino lo facciano per questo. Io, da amante di Visconti, non avrei sentito il bisogno di vederlo raccontato in una serie ma immagino che ci siano spettatori per i quali quella formula nuova è più adatta.
Spesso lei ha usato attori stranieri anche molto famosi doppiandoli.
Era una pratica consueta: l’attore straniero era molto usato specie nelle coproduzioni, penso ad esempio a Jean Louis Trintignant che non compare mai nei film italiani con la sua voce. O Rod Steiger che parla napoletano in Le mani sulla città di Francesco Rosi. Mentre Fellini aggiungeva i dialoghi al montaggio. Un tempo era consueto girare con la colonna guida per poi doppiare ed io lo trovavo divertente. Ricordo che quando mostrammo Nuovo Cinema Paradiso a Cannes avevo timore che Philippe Noiret non amasse la sua voce doppiata, temevo che avrebbe sofferto. Invece era abituato e si piacque. Il rumorista, il doppiatore, il compositore consentono di estendere la fase della scrittura che continua all’infinito anche per quanto riguarda il sonoro.
C’è in lei un amore viscerale per la pellicola che viene raccontato molto bene in un film come Nuovo Cinema Paradiso.
La pellicola restaurata è meravigliosa. E il digitale, che si presume possa durare per sempre, non è così sicuro. Forse un giorno ci toccherà ritrascrivere il digitale in pellicola. Il grande compito che abbiamo è far sì che le immagini restino, sia per i grandi film che per quelli mediocri. E’ la democrazia del cinema.
Tra i progetti mai realizzati c’è il film sull’assedio di Leningrado.
Non ci sono riuscito, in 17 anni, e non ci era riuscito Sergio Leone prima di me. Grimaldi mi propose di ereditare quel progetto di Leone, e all’inizio dissi di no perché pensavo che fosse una sfida impossibile da vincere. Poi tentai ma senza riuscire.
Cos’è per lei la sala cinematografica?
Un luogo che ho conosciuto bene, insieme alla cabina di proiezione. La sala che ho raccontato in Nuovo Cinema Paradiso è un luogo di vita, dove la gente fuma, le donne allattano i neonati. C’è comunicazione verticale e orizzontale.
Il camorrista fu prodotto da Titanus e da Silvio Berlusconi Communication. Oggi fa effetto vedere quel nome sui titoli di testa.
Sì, ma non mi viene mai in mente di citare Berlusconi come produttore perché non ho avuto rapporti con lui, ma con Goffredo Lombardo e a Medusa con Spedaletti e Giampaolo Letta. Posso dire che mi lasciarono completamente libero. Non ebbi alcun condizionamento culturale o politico. Qualcuno disse che si parlava poco di mafia perché il film era fatto dalla Medusa, ma non era vero.
E’ stato influenzato da Rosi e in particolare da Salvatore Giuliano?
Salvatore Giuliano curiosamente non l’ho visto al cinema ma in tv e mi colpi per il tono realistico. Trovavo in quel film immagini che conoscevo dalla vita reale, come le donne che urlavano e piangevano. Capii che con il cinema si potevano fare molte cose. C’è quel bellissimo volume sulla sua lavorazione scritto da Tullio Kezich e in seguito ho letto tutto quello che ho potuto trovare sul film. Ho avuto la fortuna di conoscere Rosi e diventarne amico e di questo film non abbiamo mai smesso di parlare. Non mi sento di escludere che il mio amore per Salvatore Giuliano abbia potuto influenzare la mia scelta di fare come primo film Il camorrista. Era l’epoca, a metà degli anni ’80, in cui nelle riviste di cinema prendevano un po’ in giro il classico film che veniva definito opera prima e ultima. Io mi dicevo: esordirò con film non personale ma oggettivo e quando mi sono imbattuto in questo giornalista, Joe Marrazzo, che mi confidò di aver iniziato un romanzo che nascondeva per paura della camorra, mi colpì la sua prospettiva del raccontare la nascita di un’organizzazione criminale dal suo interno. Fino a quel momento, nei film la mafia era un’entità misteriosa, ancora non c’era stata la testimonianza di Buscetta e veniva quindi raccontata come qualcosa di infallibile, inafferrabile. Mi sembrava che raccontare la nascita di un’organizzazione criminale dall’interno mi avrebbe consentito di mostrare anche le loro miserie. Ma scelsi non la chiave rigorosa da inchiesta alla Francesco Rosi, ma con un racconto popolare, quasi una ballata.
Cosa pensa di Gomorra?
Ho visto solo il film, non la serie. E’ un modo di raccontare più aggressivo, dove c’è sicuramente un approccio al racconto popolare e la lezione del libro di Saviano che è molto forte. Il film di Garrone ha aperto un fronte che ha avuto molto successo. Ma c’è chi dice che Il camorrista abbia anticipato le cose.
Cosa ricorda del set di Baarìa?
Fu un’emozione indicibile ricostruire il proprio paese come era 50 anni prima, quando ero bambino. Quando la mattina andavo sul set era come tornare indietro nel tempo.
Quanto la Sicilia ha influito sul suo lavoro e quanto ancora può dare al cinema?
Ancora oggi la vedo come una terra ricchissima dove non tutto è stato raccontato, sempre ricca di pensieri, fatti, personaggi, opportunità narrative, anche di sperimentazione al di là dei cliché. Ora in Sicilia si stanno girano decine di film e serie, è un fiorire di idee. Per esempio La stranezza di Roberto Andò, giustamente premiato dal pubblico, dimostra che c’è ancora del nuovo da sperimentare.
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