Giorgio Colangeli: “Girare ‘Castelrotto’ è stata una grande avventura umana”

Reduce dal successo di 'C'è ancora domani', l'attore torna con un ruolo da protagonista nel film Castelrotto, opera prima di Damiano Giacomelli presentata fuori concorso al 41° Torino Film Festival


TORINO – Ancora reduce dal successo di C’è ancora domani di Paola Cortellesi, che lo ha fatto entrare nell’immaginario collettivo con il ruolo di suocero burbero e misogino, Giorgio Colangeli torna con un ruolo da protagonista nel film Castelrotto, opera prima di Damiano Giacomelli presentata fuori concorso al 41° Torino Film Festival.

Colangeli interpreta Ottone, ex maestro e cronista in pensione, che vive da solo nel paesino appenninico di Castelrotto. Qualcosa di rotto non è solo nel nome della località in cui ha sempre vissuto, ma anche dentro di lui, a causa di alcuni gravi fatti personali che hanno generato dentro di lui tantissimo rancore. Un misterioso omicidio non solo mette Castelrotto sulla mappa dei media italiani, ma convince Ottone a riprendere la penna in mano (o meglio la macchina da scrivere) e provare a manipolare l’opinione collettiva a suo favore, per ottenere la vendetta tanto agognata. Al suo fianco, la giovane e aspirante giornalista interpretata da Denise Tantucci e il poliziotto locale interpretato da Mirco Abbruzzetti, che lo aiuteranno ad andare non solo a fondo alla vicenda, ma anche dentro se stesso.

Giorgio Colangeli, in questo 2023 ricchissimo di soddisfazioni, questo è il suo unico ruolo da protagonista, in un mercato cinematografico che ha, forse,  poco interesse a raccontare persone in là con l’età. Cosa vuol dire per lei tornare a interpretare un personaggio protagonista?

Ho ricominciato a fare teatro proprio per quello, perché lì puoi interpretare i grandi classici. Al cinema è più difficile, a meno che non si parli di terza età. Interpretare un protagonista è un po’ tutta un’altra cosa, non che non si approfondisca anche il personaggio breve perché l’approccio è lo stesso, parlo proprio dell’avventura umana, della lavorazione del film, che per me che vengo dal teatro è una cosa centrale. Un conto è stare un mese con la troupe e trovare quell’affiatamento, quell’intesa, un conto è stare sul set quattro o cinque giorni, magari anche intervallati, per cui non riesci mai a trovare questa familiarità. La vera differenza è questa, non tanto nella resa del personaggio. Certo, un mese ti dà la possibilità di approfondire, in certi casi anche di ripetere, perché lo senti quando a un certo punto hai acquisito il personaggio. Continuare a farlo raffina la cosa, come accade negli spettacoli di teatro. E poi a cinema è tipico che quando finisci la tua prestazione, arriva l’illuminazione: ecco come lo dovevo fare!

Ottone è un personaggio che cambia moltissimo. Prima è sordo – non solo fisicamente, ma anche al mondo che lo circonda – poi inizia a sentire, prima usa la macchina da scrivere poi il pc. Come ha lavorato su questo cambiamento?

Il vantaggio di un film compatto come questo, anche narrativamente, è che, non dico che siamo andati in sequenza, ma per lunghi segmenti del film sì. Questo ha facilitato il percorso, perché quello che si andava lavorando coincideva con quello che si andava a raccontare. Ci ho messo anche un po’ dell’autobiografico perché Ottone fa quello che anche io dovrei fare. Anche io sono un brontolone, sempre scontento, sempre critico e ostile alle novità. Molto spesso non per un fatto culturale, ma per semplice pigrizia, perché a una certa età fare delle cose nuove ti costa molto e allora eviti. Ottone è uno che a un certo punto si rimette in gioco e il motore di tutto ciò è comunque la fantasia, la creatività, la possibilità di raccontare storielle. È la sua risorsa. Lo storytelling è perfino una terapia. Una delle morali del film è che non è nemmeno troppo utile distinguere una storia vera da una inventata, l’importante è raccontare.

Quanto è urgente il tema della fake news affrontato all’interno del film?

È urgentissimo perché la possibilità di scambiarsi notizie è diventata una cosa capillare, quasi democratica. Il problema ha preso una dimensione di massa, che forse prima non aveva. Si sono come cancellate le conseguenze. La ribalta totale di internet, dove tutti possono affacciarsi. Non è detto che tutti possano essere ascoltati, ma puoi aprire un canale di comunicazione, anche se magari dall’altra parte non c’è nessuno. Comunicare una volta era riservato a specialisti della comunicazione, oggi è una cosa che può fare chiunque. Così come tante altre cose, come la medicina: oggi ti curi usando un tutorial. Chiamare democratico tutto questo è forse una presa in giro della democrazia. Però è così e quindi il fenomeno va studiato e contenuto, laddove i danni sono evidenti.

Ha sempre lavorato con tanti registi esordienti, quest’anno in particolare dove c’è pure il caso sui generis di Paola Cortellesi. Cosa vuol dire lavorare con registi alla loro opera prima?

Sarà l’abitudine a lavorare con registi esordienti, io non ci vedo una grande differenza. L’unico problema che potrebbe avere un esordiente è che ti lasci troppo fare, perché, non avendo esperienza, pensa di affidarsi alla mia. Le rare volte che succede lo dico subito: guarda, l’ultima cosa che mi va di fare è rifare una cosa che ho già fatto, facciamo qualcosa di nuovo e facciamolo insieme. Devo dire che, in maniera anche sorprendente, la maggior parte dei registi esordienti arriva con tanta determinazione e le idee abbastanza chiare su cosa fare sul set, su come muovere la macchina e, soprattutto, su come dirigere gli attori. Mi sono sempre trovato davanti a interlocutori consapevoli, se non proprio autorevoli.

Cosa ha significato per lei lavorare su un set in un piccolo paese di montagna e doversi cimentare con un altro dialetto?

È stato molto interessante. È stata una grande avventura umana. C’erano una serie di contesti che non conoscevo: il piccolo centro, il dialetto diverso. È stata una full immersion. Ero ospite di uno dei paesani, fin dall’inizio un grande sostenitore del film, che si chiama Fabrizio Leti Maggio, un vero promotore e animatore della vita del paese. Si è prodigato durante la lavorazione. Io ero suo ospite, cucinava per me seguendo la mia dieta. Poi, ovviamente, quando 115 persone uscivano per la strada era tutto un salutarsi e scambiare due chiacchiere. Sul dialetto, invece, ho avuto una coach, un’attrice marchigiana che si chiama Rebecca Liberati, con la quale ci siamo sentiti su zoom cinque o sei volte. Poi devo dire che la full immersion ha contato, perché non sentivo parlare altro che quel dialetto. In realtà io da bambino avevo frequentato dei marchigiani e quindi avevo un sottofondo di marchigiano che avevo archiviato e dimenticato. Questo film me lo ha fatto rinascere e quindi mi sono sentito proprio a mio agio. Non ho imparato solo le battute, ma riuscivo proprio a parlarlo.

Carlo D'Acquisto
27 Novembre 2023

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