Gianluca e Massimiliano De Serio: Caravaggio nella baraccopoli


TORINO – E’ un lento percorso dall’abiezione alla pietas quello di Luminita e Antonio, i protagonisti di Sette opere di misericordia. Lei (Olimpia Melinte) è una giovane clandestina che prende a morsi la vita, rubando il cibo ai malati dell’ospedale e andando a dormire per pochi euro in un furgone gestito dai suoi connazionali moldavi, che vivono in una baraccopoli alla periferia Nord di Torino, lungo il fiume Stura. Lui (Roberto Herlitzka) è un anziano solo, malato di tumore alla gola, indurito dalla sofferenza e prossimo alla fine. Intorno a loro solo gelo e squallore. Tanto che la carità evangelica – dar da bere agli assetati e vestire gli ignudi – sembra rovesciarsi in un beffardo contrappasso. Ma la luce affiora…

 

Opera prima di finzione dei due gemelli torinesi, già collaudati autori di documentari (Mio fratello Yang, Bakroman), video e installazioni d’arte, Sette opere di misericordia, che è prodotto da Alessandro Borrelli con il supporto del MiBAC, in collaborazione con Rai Cinema, la Fip e la Film Commission Torino Piemonte, uscirà nelle sale il 20 gennaio con Cinecittà Luce. Forte dei molti premi vinti nel mondo, da Locarno a Villerupt, ultimi in ordine di tempo il Gran premio della giuria e il Premio della giuria giovani a Grenoble. Ora Torino lo propone fuori concorso, rendendo anche omaggio al protagonista Roberto Herlitzka, che riceverà il Premio Maria Adriana Prolo alla carriera dalle mani del regista che più l’ha amato ovvero Marco Bellocchio.

 

Come mai il film è così apprezzato, soprattutto all’estero?

Gianluca. È un film poco italiano, nel senso a cui siamo abituati e per un festival internazionale avere un’opera che si distacca dalla media contemporanea è interessante.
Massimiliano. Non si può dire che piaccia, perché è un film che arriva come una mazzata. Noi volevamo innanzitutto trattenere il pubblico in sala, anche durante i titoli di coda e oltre. Un’opera che si rispetti deve rispettare il pubblico che ne è parte integrante.

 

Il film traccia un percorso di scoperta della pietas incredibilmente maturo per due autori come voi, poco più che trentenni.

Gianluca. Diciamo subito che non siamo religiosi, anzi non siamo neanche battezzati, perché i nostri genitori hanno deciso di lasciarci la libertà di scegliere e questo ci ha permesso di cercare. Sette opere di misericordia non è un film religioso, ma una ricerca di spiritualità. Le sette opere di misericordia corporale raccomandate dalla Chiesa ai fedeli sono riportate in un’ottica interamente umana. Ci sembrava utile andare all’essenza del concetto di misericordia, riportandolo alla pietas romana, cioè il prendersi cura del corpo dell’altro.

Massimiliano. Il mestiere del cinema è vicino a qualcosa di sacro, è aspirazione a parlare dell’invisibile, è utopia e paradosso.

 

Sono tanti anche i riferimenti pittorici nella costruzione dell’immagine.

Massimiliano. In particolare c’è un dipinto di Caravaggio conservato a Napoli, al Pio Monte della Misericordia, che ci ha colpito profondamente per la compresenza di un ritratto della società dell’epoca attraverso i volti e i corpi dei bassifondi di Napoli e la forte carica allegorica e spirituale esemplificata dall’angelo che scende dall’alto e che nel film è il personaggio di Adrian, il ragazzino moldavo che offre a Luminita il suo affetto puro proprio come un angelo. La storia dell’arte è molto presente nel film, da Caravaggio a Piero Della Francesca perché il personaggio di Luminita ha in sé l’armonia di un volto rinascimentale, mentre Antonio sembra opera di un fiammingo e il suo corpo è un paesaggio da esplorare.

 

Siete andati molto oltre il cinema che parla di immigrazione, rappresentando la radicale alienazione contemporanea, che riguarda tutti, stranieri o meno che siano, perché la solitudine disperata di Antonio è pari a quella della clandestina Luminita. In questo vi ha aiutato il vostro percorso precedente, i molti lavori che avete dedicato a questi temi?

Massimiliano. La baraccopoli dove abbiamo in parte girato è a poche centinaia di metri da dove viviamo, nella periferia Nord di Torino, lì abbiamo anche fatto volontariato. Sicuramente il tema dell’immigrazione ci accompagna fin dall’inizio del nostro lavoro, ma come metafora della perdita d’identità nella società contemporanea. Quando prendo il tram la mattina non incontro italiani nati qui da generazioni, ma molti nuovi italiani. A noi sembra normale che le nostre storie nascano dalla realtà che ci circonda.

 

Avete anche schivato qualsiasi schematismo nel rappresentare le forme della schiavitù contemporanea, buoni e cattivi, vittime e carnefici.

Massimiliano. Non c’è un solo personaggio positivo, ad eccezione di Adrian, tutti portano dentro di sé un livello di abiezione, ma anche un bisogno di riscatto personale e umano. Antonio e Luminita, grazie al contatto umano che si stabilisce tra loro, riescono a riscattarsi.
Gianluca. Il film vuole staccarsi dal discorso sociologico sull’immigrazione. Nel cinema italiano degli ultimi anni ci sono stati troppi cliché, compreso quello dell’immigrato buono.

Come molti altri cineasti, dai Taviani ai Coen, siete fratelli. Cosa comporta questo nel vostro lavoro?
Gianluca
. Siamo gemelli, quindi facciamo parte di una categoria ancora più di nicchia rispetto ai fratelli… Lavorare insieme è complicato e facilissimo. Complicato perché abbiamo le stesse idee quindi cerchiamo di differenziarci e di dividerci il lavoro. Semplice perché sappiamo come litigare.
Massimiliano. Il lavoro del cinema è un lavoro collettivo piuttosto che intimo e personale. Lavorare in due, dunque, è una specie di training per quel lavoro collettivo.

28 Novembre 2011

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